Una volta il mezzo era il messaggio, ora è anche la salvezza. Ha creato un evento e anche il meccanismo del lieto fine
Pavlov lo faceva con gli animali. A noi ci avrebbe chiusi in una casa – inventandosi, chessò, una pandemia per non farci uscire – e avrebbe riprodotto “allucchi” in strada. Lo avremmo gratificato col grande riflesso istintivo di questi anni: che è stato?, riprendi, fai il video. Poi per capire cosa fosse successo (ah, il cavalluccio rosso…) avremmo rivisto tutto alla nostra moviola. Un attimo prima di liberarlo, sui social.
E così se oggi stiamo celebrando il Libro Cuore del rider rapinato e ricompensato in un battibaleno, lo dobbiamo esclusivamente ad un ignoto che s’è preso la briga di affacciarsi alla finestra e filmare l’aggressione violenta. Il passo successivo, la pubblicazione e la replicazione di sponda, è fisiologia della modernità: siamo tutti producer di contenuti oggigiorno. La trafila legale – denuncia, indagini, arresti – è un feticismo di una generazione che manco ci crede più. Le rapine si subiscono, quando si ha voglia si denunciano, ma resta la consapevolezza, il disincanto sfatto, che difficilmente se ne verrà a capo.
A Napoli nel 2020 sono state presentate 3.900 denunce di rapine. 126,5 ogni 100.000 abitanti. Nella classifica del Sole 24 Ore siamo primi, in Italia. È un dato, ma non è il punto. In quante di queste 3.900 occasioni la vittima abbia ricevuto giustizia, non lo sappiamo. Ma sappiamo che il malcapitato rider picchiato in favor di smartphone s’è salvato in quanto “virale”. Ora conosciamo la sua storia di ex macellaio cinquantenne che per campare onestamente la famiglia fa un lavoraccio durissimo, indugiamo sui particolari tenendoci stretti il dettaglio sensibile, per alimentare l’indignazione che tutto muove. Lo sciacallaggio politico.
Picchiato, umiliato e derubato dal branco mentre stava facendo il suo lavoro.
Che schifo. La mia vicinanza va a Giovanni, papà di 50 anni, costretto a fare il rider dalla crisi e dalla disoccupazione. pic.twitter.com/pJ18VjbioH— Matteo Salvini (@matteosalvinimi) January 4, 2021
Lui, il poveretto, finisce centrifugato nella macchina della commiserazione, dalla mediaticità dell’evento: le interviste, il messaggio sociale, la raccolta fondi, l’azienda che gli propone un impiego. La giustizia, persino, fa il suo corso per direttissima: tutti e sei i criminali catturati in due giorni. Una saturazione di tinte che alimenta il perpetuo riproporsi della solita storia: la Napoli violenta si autoespone per riabilitarsi, i cattivi diventano uno strumento di affrancamento dei buoni. La città, infine, ritrova “il suo grande cuore”. E tutto il grottesco bene quel che finisce bene.
Grazie a un video. Altrimenti quella rapina non esisterebbe, se non nei lividi e nella paura (anzi nel coraggio, visto come ha reagito all’assalto) della vittima, nell’adrenalina dei ladri, nelle beghe della polizia che avrebbe dovuto indagare su un fatto senza testimoni. Nessuna delle auto che passavano mentre l’uomo veniva preso a calci s’è fermata. Non sappiamo di interventi del 112 o del 113. Nessuno avrebbe visto niente, se non ci fosse stato quel telefonino a spiare la strada. Non staremmo scrivendo questo pezzo, nemmeno.
L’effetto Cina ha fatto il miracolo, e una volta tanto ha poco a che fare con lo stigma della città criminale. Calata Capodichino poteva essere una periferia qualunque. L’istinto della riproduzione è slegata dal territorio, crea l’evento, il reality, toglie al male il mantello dell’invisibilità. Ma tradisce, anche, la pretesa di autoassoluzione che risponde allo shock della visione: non siamo tutti così, ribelliamoci. È una rivolta dei buoni sentimenti che funziona una tantum. E nasconde tutte le botte e le coltellate e le pistole puntate della quotidianità. Il mezzo è il messaggio, diceva quello. E in questo caso è anche la salvezza. Nell’epoca dell’iperconnessione il video è la rapina, oltre che la sua soluzione. Ma è anche un’illusione.