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Pippo Inzaghi è una rarità: allena senza la pretesa di aver scoperto il calcio. E vince pure

Il suo Benevento è la sorpresa di metà stagione. Non dice “il mio calcio”, non se la tira. Un po’ come quando giocava: segnava e basta

Pippo Inzaghi è una rarità: allena senza la pretesa di aver scoperto il calcio. E vince pure
Pippo Inzaghi esulta con sobrietà

La carriera di Pippo Inzaghi è un equivoco. Mentre segna più gol di tutti, o piazza il Benevento al centro della classifica di Serie A a metà stagione, Inzaghi resta una pippa. Quello che segnava “a culo”, e che è destinato ad allenare con la stessa parte anatomica. Dovrebbe, forse, cominciare a raccontarsi in un altro modo. Andare in tv, salire su un piedistallo, e parlare di schemi come ad un’interrogazione di trigonometria. Gattuso – scusate l’inciso perverso – mentre spiegava i motivi della sconfitta del Napoli contro lo Spezia in dieci ha buttato lì un “noi già dobbiamo pensare troppo in campo, facciamo un calcio difficile da proporre”. Così, si fa: decidi tu che sei un grande allenatore, suggerisci che stai reinventando il gioco, la fai pesare un po’. Gli altri – chi poi vidimerà la tua genialità – saranno portati a pensare “oh, che mi sono perso?” e annuiranno per non far brutta figura.

Invece Inzaghi allena come giocava. Sul filo del fuorigioco. Segnando una caterva di gol (se scorrete il record delle reti europee dopo Cristiano Ronaldo, Messi, Lewandowski e Raúl c’è lui), brutti, disarticolati, pieni di rimpalli, strusciate. E mentre il dibattito sul grande attaccante verteva sulla bellezza, lui piazzava i numeri, in silenzio. Persino quando esultava, Inzaghi era brutto. Sguaiato. Pareva sempre stesse correndo a picchiare qualcuno. Ora che il Benevento, in un modo o nell’altro, ha raccolto 21 punti in 16 partite, non sta mica lì a tirarsela troppo. È Inzaghi. È una pippa, per principio.

Montella, collega bomber e collega allenatore con un talento raro nel marketing di sé, diceva che se scomponi il centravanti Inzaghi non ci trovi niente di speciale: fa cose normali, da giocatore normale. Nella somma di queste normalità era però devastante. Non millantava credito, e figurarsi se lo fa oggi che in campo ci vanno gli altri. Lui resta quello che spoetizzava se stesso dicendo che il «gol più bello è quello che devo ancora segnare». In realtà avrebbe voluto dire che dei gol belli non gliene fregava niente. Il gol è ontologicamente bello: non c’è bisogno di arzigogolare troppo sull’estetica. È fuffa. La consapevolezza dell’onesto sfacchinatore.

Il suo Benevento è esattamente questo. Gioca con un Insigne che tira in porta dritto per dritto, senza giri, e da tecnico si è autoproclamato difensore. Proprio lui che era una sola cosa col gol. «Il mio Bologna dovrà ispirarsi all’Atletico di Simeone», disse quando si presentò alla sua seconda occasione da allenatore di Serie A. «l’Atletico non sarà sempre bello da vedere, ma tutti lottano e combattono».

La prima, col Milan, pure era stata un fallimento. Aveva esordito il 31 agosto 2014 battendo 3-1 la Lazio a San Siro. E aveva chiuso il 30 maggio 2015 con un altro 3-1, sull’Atalanta. Decimo posto con 52 punti, il record negativo nei campionati a 20 squadre, una media di 1,37 punti a partita, dodici sconfitte e 50 gol subiti. Al Bologna finì esonerato per far posto a Sinisa Mihajlovic.

Inzaghi è rimbalzato due volte sulla moda di promuovere i grandi calciatori in panchina per pretesa nobiltà. Aveva invece bisogno per sua natura della gavetta. Della fatica. Della fame. Doveva allenare da underdog. Col Venezia in Serie B arriva alla semifinale playoff. Col Benevento batte tutti i record di categoria, dominando la stagione spezzata dalla pandemia. Per tornare al punto di partenza: la Serie A. Dove già c’è il fratello, meno bomber ma più allenatore.

Stiamo riscoprendo Inzaghi, alla seconda versione di “pippa” vincente. Orgoglioso della sostanza. Quando il Napoli l’ha battuto, s’è beato di un riconoscimento non plateale:

«È bellissimo vedere il Napoli esultare per aver vinto a Benevento dopo che negli ultimi sette minuti sono stati in area di rigore a soffrire»

Lui s’è adattato al ruolo, e così adatta la sua squadra al contesto. Senza le catene dell’ideologia, del “mio gioco”. Senza impuntarsi. Inzaghi allena senza la pretesa di aver scoperto il calcio. È dissacrante, di questi tempi, ma funziona. Funzionava pure quando segnava 5 gol nelle 3 finali vinte dal Milan nel 2007: Champions League, Supercoppa europea, Mondiale per Club. Un classico curriculum da pippa.

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