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Ho sperato nella diversità di Insigne. Ma ha preferito rimanere a Napoli, diventando come lei

La sua rabbia verso l’ambiente insopportabilmente critico, non si è tramutata in voglia di dimostrare. Ha preferito allenatori compiacenti ad allenatori che lo avrebbero fatto crescere

Ho sperato nella diversità di Insigne. Ma ha preferito rimanere a Napoli, diventando come lei

Diversi anni fa ebbi almeno un paio di animate discussioni con amici napoletani che, a mio avviso, illudendosi del loro presunto stato privilegiato di laureati appartenenti alla classe media campana, guardavano a Lorenzo Insigne – all’epoca rampante ragazzino di provincia – con la tipica sufficienza borghesotta con la quale la creatura semicittadina guarda generalmente al burino. All’epoca anche gli avvocati napoletani in apprendistato o i quasi commercialisti nello studio dell’amico di famiglia si curavano di giudicare la carriera futura del già milionario nascente calciatore ed il fatto che l’appena ventenne ex Pescara scendesse in campo contro il Borussia a Dortmund, in una arena in cui i miei interlocutori avrebbero faticato persino a trovare parcheggio – mentre la tanto esigente città subiva un fremito se gli si cambiava il barista prediletto sotto casa – mi induceva a perorare la causa di Lorenzo Insigne. Per me, Lorenzo Insigne era la cultura, a Napoli. Con buona pace del Cristo Velato. E quando i più, in città, lo fischiavano, ricambiati da qualche gesto di stizza, lo ritenevo un buon segno: in generale, storicamente c’è motivo di ritenere che ciò che i napoletani rifiutano e rigettano sia merce preziosa.

Ora, non è un rigore sbagliato che cambia la storia di un calciatore. (Anche se vorrei la finissimo, ad ogni penalty calciato male, di ricordare che anche Maradona ne fallì uno contro il Tolosa, perché sono esempi dalla tipica pochezza intellettuale di chi, dovendo commentare l’alito pesante del vicino in metropolitana, finisce sempre col tirare fuori un paragone con Hitler). È la storia che cambia la storia.

Lei, signor Insigne, ha lavorato molto in carriera e gliene va dato grande merito. Ma ha anche avuto la fortuna di conoscere molti attenti maestri di calcio: Zeman, Benitez, Sarri, Ancelotti. Forse nessuno nel Napoli ha avuto questo privilegio. Aggiungo anche che credo nessuno dei suoi detrattori di un tempo, ivi inclusi i miei amici, abbiano frequentato aule universitarie in cui abbiamo avuto l’opportunità di conoscere simili influenti professori in cattedra. Lei ha trovato al suo fianco molti importanti giocatori, più di quanti la maggior parte dei suoi attuali compagni di spogliatoio possano annoverare. Ha avuto più talento a disposizione attorno a lei di quanto la maggior parte di noi abbia avuto lavorando o studiando. Lei ha lavorato moltissimo, ma ha anche avuto molte opportunità di capire.

Io non mi pento di averla difesa anni addietro dalla usuale ferocia cittadina verso chiunque non accetti la stagnazione esistenziale e anzi se ne bei. Solo, francamente, sono deluso dal suo aver preso e appreso, ma aver restituito poco. Aver tenuto il rischio, tutto sommato, sempre sotto controllo. Mi sarebbe piaciuto che lei fosse andato via. Che al suo vaffa in campo avesse fatto seguito un tarlo nella sua testa, un senso di incompiutezza, anche pervicace, cocciuto. Di voglia di dimostrare di avere un obiettivo più lontano, più grande persino della maglia che indossa. Mi sarebbe piaciuto lei fosse andato via per la sua carriera (a mio avviso ne avrebbe enormemente giovato) e per essere un esempio per tutti noi. Per concedere anche una lezione ai suoi detrattori – che oggi, signor Insigne, sono divenuti tutti suoi ammiratori. Perché lei li sta accompagnando per mano attraverso i giardinetti della mediocrità cui essi sono avvezzi. Tra le bocce dove vogliono passare i pomeriggi.

Oltre all’assai trascurabile benefit di essere conservato nel nostro piccolo pantheon di ammirazione, tra il Liverpool e l’Everton, lei avrebbe dato un esempio enorme a squadra e città. Potendoselo permettere. Un esempio sul fatto che si invecchia tutti, ma si può farlo senza troppo melodramma. Senza finire col piangere in panchina, fare i cuori o alzare i pollici ad ogni passaggio fallito. Invece credo che lei abbia fatto tanto, senz’altro, ma non troppo. Ha fatto sempre tutto molto moderatamente, pur avendo l’agio di poter giocarsi qualche numero sulla roulette senza finire in bancarotta.

Per quel che vale, credo l’insegnamento sia che è sempre meglio ascoltarle le parole di chi qualche anno di esperienza in più ce l’ha. Se ti mette in panchina e sceglie di farlo in modo deciso ma senza alcun astio personale, quell’invito è meglio raccoglierlo. Altrimenti capita che chi viene dopo dica che, perdendo due a zero una finale di rara bruttezza (l’unica in cui io mi sia assopito più volte) non bisogna rimproverarsi nulla.

Come si dice quasi sempre a Napoli: peccato.

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