Cassani: «A 15 anni mi prendevano in giro perché andavo a letto presto, ma io sapevo cosa sarei diventato»
Alla Gazzetta: «Mi dicevano “Sei un bambino”. Ci ho sempre rimesso a essere nato il primo gennaio, perché il regalo non è mai arrivato. C'è troppa disattenzione sulle strade, poco rispetto reciproco»

La Gazzetta dello Sport intervista Davide Cassani, c.t. della Nazionale italiana di ciclismo dal 2014. Domani compie 60 anni.
«Se sarà bello, faccio 50 km in bici; se piove, vado a piedi. Ci ho sempre rimesso a essere nato il primo gennaio, perché il regalo non è mai arrivato. E non arrivava nemmeno a Natale, perché per i miei non era obbligatoria la ricorrenza per farmeli. Da ragazzo, dai 12 ai 14 anni, ho suonato il sassofono nella banda del comune di Solarolo e aspettavo la fine dell’anno per dividere i soldi in base ai servizi fatti. Così potevo andare a comprarmi un gioco. Perché il sassofono? Alla scuola di musica era l’unico strumento libero. A 15 anni ho iniziato con la bici».
Parla del ciclismo, di quanto sia amato lo sport tra gli italiani, dei ciclisti. Su Nibali:
«È ancora un animale da competizione: è il primo a non essere contento del 2020, e me lo aspetto ancora più cattivo. Sa che c’è l’Olimpiade…».
Su Ganna:
«Il suo merito è di aver avuto pazienza. Pippo ha fatto tre anni tra i dilettanti, non ha lasciato la pista e adesso la pista gli ha dato la possibilità di vincere anche su strada. Tanti giovani invece hanno troppa fretta e rischiano di bruciarsi. Ai neoprofessionisti ho detto: “Non smettete di credere ai vostri sogni perché sono quelli che vi hanno portato fin qui. Il sogno ti fa scoprire prima quello che succederà».
E il suo, di sogno?
«Fare il c.t. è sempre stato un sogno a occhi aperti. Così come quando sognavo di fare il corridore: eppure a 15 anni mi prendevano in giro, “sei un bambino”, io il sabato sera andavo a dormire presto perché correvo e invece gli altri uscivano, le prime ragazzine. Ma io sapevo quello che avrei fatto e cosa sarei diventato».
Cassani è da sempre in prima linea per la sicurezza dei ciclisti. Dice:
«Ho smesso nel 1996 perché mi hanno investito. C’è troppa disattenzione sulle strade, poco rispetto reciproco. Ma bisogna convincerci che, prima di pretenderlo, il rispetto va dato. E insegnare ai giovani a stare attenti alla sicurezza anche in corsa: una vittoria non vale mai un rischio di troppo».