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Essere Maradona costa una vita intera e tragica

L’unica che produca una gioia gigantesca e gratuita per gli altri. A pagare è uno per tutto il resto – noi – che esultiamo senza spendere un centesimo

Essere Maradona costa una vita intera e tragica

L’unico dio che ho visto in vita compie sessant’anni.

Significa che sto invecchiando anche io con lui e che divinità e immortalità non coincidono – d’altra parte quel dio venne al mondo a ridosso della notte delle streghe, non nel giorno del santo Natale che oggi pare tutto il mondo sia deciso a “salvare”. (Da cosa? Boh).

All’epoca io ero un cattolico osservante. Lavoravo molto per convincermi che le ostie si trasformassero nel corpo di qualcuno grazie alla transustanziazione, ma l’unico miracolo che vidi fu la palla colpita di testa a scavalcare Galli. E quei secondi di apnea che credo precedano lo spirare finale mentre la sfera rimbalza sbilenca verso una porta vuota. I religiosi continuano a tagliare le teste sbagliate, il capitano dell’Argentina ha ammazzato le tradizioni spirituali millenarie molto più di Voltaire.

Aggiungo anche io all’inutile sfilza di pagine le mie inutili righe: di Maradona non capimmo nulla. Ferlaino lo tradì meno crudelmente di quanto avrei fatto io e con più astuzia di Giuda. Io lo volevo con me, nella mia squadra, o preferibilmente morto. Perché così ragionano i religiosi, più o meno praticanti. E così anche io ragionai. Tutti noi siamo disposti ad usare le trenta monete quando servono: si chiamano riscatto, voglia di vivere, o necessità di mettere a posto la famiglia. Le chiamiamo cose necessarie ma sono solo le nostre debolezze.

Non ci capimmo niente perché di solito così va il mondo. Le storie si avvicendano senza che le persone ne comprendano un brandello di senso. Oggi, molto tardi, quando compie sessant’anni, so che essere Maradona costa una vita intera e tragica, ovvero l’unica che produca una gioia gigantesca e gratuita per gli altri. Gratuita perché a pagare è uno per tutto il resto – noi – che esultiamo senza spendere un centesimo. Che ci accapigliamo per lo spritz negato mentre gli ospedali sono stracolmi. Che vogliamo sorridere mentre c’è chi muore.

Adesso che di anni ne ho quarantacinque, credo che l’insegnamento più grande fu la sconfitta contro il Milan che segnò la perdita del secondo scudetto. Il capitano, col proprio esempio, mostrò che neanche un essere miracoloso viene meno al destino e che alla Moira anche Zeus è silenziosamente sottoposto.

Non ci abbiamo capito niente e la nostra ignoranza l’abbiamo festeggiata. Ogni festeggiamento, d’altra parte, è volontà di ignorare. All’epoca credevo nella resurrezione dei corpi, oggi credo nel Napoli trionfante in Champions League nei prossimi anni in cui probabilmente sarò ancora in vita. È più facile che mio nonno si risvegli dalla tomba, in effetti. Ma è meglio credere in qualcosa che so essere falsa che difendere la verità che non posseggo. Questo non l’ho appreso dalle molte pagine di padri della chiesa che mi diedero da leggere ma me lo ha insegnato un nano di Villa Fiorito. Era brutto e solo ma palleggiava con le arance.

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