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Carlo Franco una vita da cronista, la passione giornalistica fatta persona

Abbandonò un stipendio faraonico al Banco di Napoli per tornare a fare quella vita di merda in redazione. «È l’unica che so fare». La sua firma è al Moma.

Carlo Franco una vita da cronista, la passione giornalistica fatta persona

Era il migliore di tutti noi. Chissà quante volte abbiamo scherzato su questa frase, su questo attacco da scrivere quando sarebbe arrivato il momento. Non sempre riferendoci a te, ci tenevi a precisare. C’ero anch’io nelle telefonate. Parlavi raramente della morte, magari un accenno, una battuta. Del resto era davvero inusuale imbattersi in un uragano di vita come te. Mi perdonerai la citazione al quarto rigo. Eri l’equivalente di Maude. Già lo so che ora diresti qualcosa sul mio essere Harold.

Ma, soprattutto, tu Carlo Franco eri un giornalista. Non avresti potuto fare altro. Essere altro. Hai incarnato il giornalismo di un’epoca. Quando quei fogli di carta che sporcavano le dita, erano un potere. Eri un cronista. Più di ogni altra cosa. Quello che si sarebbe venduto la mamma per una notizia. Perché era più forte di te. Quello con cui potevi litigare a morte. Con cui però ti sentivi vivo e annusavi l’aria di quando questo lavoro era il contrario della rassegnazione e del clima ovattato e asettico.

Eri un animale da redazione. Avevi un rapporto fisico con la notizia. Quando capivi la storia del giorno, trovavi sempre un modo per starci dentro. Sempre. E nulla ti avrebbe fermato. Impossibile insegnarlo a una scuola di giornalismo. Perché, sì, questo è un mestiere che puoi anche imparare. Ma la fiammella o ce l’hai o non ce l’hai. E tu avevi un braciere.

“Come farai, quando non ci sarò più” ripetevi mentre mi sganasciavo dalle risate al telefono. Con te ci si divertiva. Il commento mattutino dei giornali con te era un momento imperdibile. Avresti voluto mettere le nostre chiacchiere su YouTube. Facevamo a gara a chi coglieva in fallo l’altro. Glisso sulle male parole che mi rifilavi per sottolineare che secondo te avevo scelto la vita comoda. E coinvolgevi Maria Teresa la colonna della tua vita.

Racconta chi era Carlo Franco. Racconta che era un signore che rifiutò uno stipendio faraonico al Banco di Napoli di Ventriglia per tornare a fare «quella vita di merda in redazione», al Chiatamone. «Ma è l’unica cosa che so fare, e poi là stavo morendo. Mi mancava l’aria». Aveva l’autista che non utilizzò mai. Glielo disse subito, eleggendolo quasi a proprio nemico: «Vado a piedi». Responsabile comunicazione del Banco di Napoli. Quando il Banco di Napoli era una potenza. Resistette poche settimane.

Lì le notizie dovevi nasconderle. Lì non arrizzavi. Perché la notizia fa arrizzare. Eccitare non è la stessa cosa, non rende. La notizia o ti procura un fremito o questo mestiere non fa per te. Perché vuoi mettere la goduria nel far tremare un politico o comunque far incazzare il personaggio di turno? Nel beccarlo e farlo martire sul giornale? Quando il quotidiano era uno strumento che metteva paura. E tu sei stato in giornali veri. Sei stato alla prima Repubblica di Scalfari. Sei stato al “vecchio” Roma. E, soprattutto, sei stato al Mattino. Il tuo giornale. Quando qualcuno ricordava che la tua firma era al Moma, sulla prima pagina di “Fate presto”, smitizzavi. Ovviamente ne eri orgoglioso. Lo consideravi un riconoscimento. Non un alloro su cui cullarsi. Per Il Mattino hai diretto la cultura, era un tuo vanto ricordare i premi vinti da quella redazione (“non sapevo niente, facevano tutto loro: Francesco Durante, Michele Buonomo, Antonio Fiore”, c’erano anche gli abusivi Cicelyn e Treccagnoli, era legato a Titti Marrone e Titta Fiore, e ad altri ovviamente). C’è la tua firma sulla prima pagina del primo scudetto. Dirigevi lo sport. Dove c’era il fatto, c’eri tu. E coglievi sempre quello che stava accadendo. Anche nel nostro settore. Nel mazzo dei giovani colleghi, individuavi sempre le tre rose. Ti eri appassionato anche al Napolista per cui ha scritto tanto.

Lo sento qualcuno che starà dicendo: “sì però bluffava pure”. E certo. Dopo qualche tempo nemmeno lo negavi (a caldo sì). Lo consideravi parte del mestiere. Ma avresti risposto, sempre con la tua risata: “Però sul tavolo scoprivo anche i poker d’assi…” (magari lo avresti detto con un linguaggio più cameratesco). Come quella volta che ti prendesti la rivincita sul tuo amato/odiato Mattino che ti aveva messo alla porta. In realtà ti aveva messo in pensione ma per te fu come metterti alla porta. Glielo facesti leggere sul Corriere del Mezzogiorno che era morta Anna Maria Ortese. Una volta si chiamavano buchi. Quella fu una voragine. Come trattenere un sorriso quando, il giorno del suo ritorno a Pozzuoli, ti mettesti sotto braccio a Sophia Loren e non la mollasti più. Non c’è una foto di lei da sola! “Chi è quella signora accanto a Carlo Franco?”

All’epoca facevi incazzare perché non ti facevi da parte. Col senno di poi, dico che furono lezioni formative. Creavi la competizione interna. Insegnavi che il posto dovevi conquistartelo. Ti mettevi sullo stesso piano. E il piano era sempre quello delle notizie. Eri uno scassacazzo, sia chiaro. “E sennò facevo l’impiegato”. La verità è che non tornavi mai a mani vuote. Nei giornali è materia pregiata.

Di Napoli conoscevi praticamente tutto. E tutti. Vita, morte, miracoli, matrimoni, commari, pettegolezzi. “Ma comme cazzo faje ‘a ffa’ ‘o ggiurnalista se nun saje sti ccose”. Eri orgoglioso del tuo armadietto alla Canottieri, fetta importante della tua vita. Come lo era Massa Lubrense.

Il giornalismo è come il tressette. Si capisce subito se sai giocare oppure no. E quando becchi qualcuno che sa giocare, ascoltarlo è ossigeno. Duettare di giornalismo è ormai roba da reduci. Tu lo facevi senza mai cadere nel nostalgico. Sempre con lo sguardo rivolto al domani. Avevi promesso una intervista forte a don Aniello Manganiello. Era la settimana scorsa. Ridevi e mi sfottevi come al solito.

Ti ha portato via il virus. In un amen. Avevi 81 anni.

“Come farai, quando non ci sarò più”. Ecco, non avevo mai preso in considerazione quest’ipotesi.

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