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Pozzecco: che palle il libro di Agassi. «Mi fa impazzire l’importanza che l’Italia dà agli allenatori»

Strepitosa intervista al Corsera: «Ripete sempre che gli fa schifo il tennis. Io invece ho amato il basket, mi ha insegnato a vivere. I coach che umiliano gli adolescenti, sono frustrati»

Il Corriere della Sera ospita un’intervista non meno di strepitosa a Gianmarco Pozzecco. La firma Marco Imarisio. Pozzecco ha 48 anni, ha scritto una autobiografia sincera fino all’autolesionismo (com’è lui), ha una fidanzata che – parole sue – gli ha cambiato la vita anche se non gli ha parlato per giorni dopo la pubblicazione del libro. Con la Nazionale di basket ha vinto una medaglia d’argento alle Olimpiadi (risultato straordinario per la pallacanestro italiana). Oggi allena Sassari.

«Ho fatto un sacco di cose stupide, spesso mi sono fatto male da solo. Un certo tipo di vita non mi appartiene più, ma è un passato che non rinnego. Sono stato un cretino? Io sono anche quel cretino che ero. Non è che sei sempre lo stesso, ognuno di noi contiene cose belle e brutte, errori. E prima di giudicare, forse bisognerebbe sempre conoscere, e sforzarsi di capire gli altri, i loro sbagli, i loro eccessi, la vita che hanno avuto».

Ricorda quando, a 13 anni, attese il padre a cena per dirgli che tra il basket e il calcio non aveva dubbi: avrebbe scelto il basket. E il padre si sedette e disse: “Allora siamo d’accordo, vai a giocare a calcio, no?”.

Fu come ricevere un pugno da Mike Tyson. Ko tecnico. Risposi che obbedivo. Che avrei giocato a calcio. Poi mi alzai da tavola e tornai nella mia stanza, a piangere. E poi feci di testa mia, per la prima di una serie infinite di volte.

Del libro di Agassi dice:

«Per carità, quel libro non sono neppure riuscito a finirlo, l’ho mollato a pagina 200… Agassi ripete a ogni pagina quanto gli faccia schifo il tennis. Abbiamo capito, va bene, peccato per te. Io invece ho amato e amo il basket con ogni mia molecola. Mi ha insegnato a vivere. A gestire la pressione, a stare in gruppo, a tollerare l’errore del compagno. Il basket ha definito quello che sono».

Il basket mi ha concesso una vita incredibile, e me la sono goduta. Ne ho fatte di tutti i colori, in campo e fuori. E nel libro non ne nascondo mezza. Sa perché? (…) Vorrei far capire che il giudizio sulle persone non può mai essere definitivo. Che cambiamo tutti, ogni giorno. Non è sempre bianco o nero, non che sei cretino per sempre o cretino mai. Siamo tante cose tutte insieme, ognuno di noi.

L’unica cosa che mi fa male è quando sento qualcuno dire che ero un cocainomane. Io non mi sono mai drogato nella mia vita. Mai. Ero pazzo? La gente veniva al palazzetto apposta per vedere me, sapeva che mi sarei inventato qualcosa.

Nella mia prima stagione in A2, l’allenatore di allora mi gridò davanti al resto della squadra: “Ma tuo padre, quella sera, invece di andare con tua madre, non poteva farsi una….  Credo di sì. Lo attaccai al muro, e imparò a rispettarmi. Ma il mondo dello sport è ancora pieno di gente così, che umilia l’adolescente sentendosi chissà chi, tirandogli i capelli, insultandolo, con la scusa che è per tirare fuori il meglio da lui. Non è così che si insegna a un giocatore. Non sei un buon coach, sei solo un uomo vile e frustrato.

Una cosa che mi fa impazzire in Italia, è l’importanza che si dà all’allenatore, e non parlo solo di basket. Ce ne sono di due tipi: quelli che pensano di avere la ricetta per far vincere i giocatori, e quelli che invece pensano che siano sempre i giocatori a farti vincere. E se appartieni alla seconda categoria, ti prendi anche un po’ meno sul serio, che non fa mai male»

 

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