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Dalle accuse (cadute) di intermediario coi narcos alle frodi fiscali: Jorge Messi, més que un papà

Chi è davvero il genitore ingombrante di Leo, che ha costruito un impero “all’insaputa” del figlio. E che ora tratta l’addio traumatico al Barcellona

Dalle accuse (cadute) di intermediario coi narcos alle frodi fiscali: Jorge Messi, més que un papà

Nel traumatico passaggio dalla villeggiatura che non credevamo di poter vivere al ritorno, alle lamentazioni dicotomiche “meglio morire di virus o di fame?”, vorremmo tutti avere un papà come Jorge Horacio Messi. Non di affetti parliamo, ma di soldi. Uno che ci costruisce un impero economico a nostra insaputa, mentre noi figliuoli “dobbiamo solo pensare a giocare a pallone”. Uno che fa il pieno di miliardi per noi, tenendosi la sua paghetta milionaria, intestandosi sgamuffi fiscali, risse coi tribunali, rapporti incestuosi con i narcos colombiani, fino a quando qualcuno non ce ne chiederà il conto, e noi potremo fare spallucce: “Scusate, ma io non sapevo. Sono solo il più forte e pagato giocatore del mondo. Mi fidavo di papà. Chiedete a lui”.

Nelle favole – che a questi livelli di opulenza si fanno realtà con una facilità imbarazzante – accade che le autorità chiedono davvero a papà, acciocché l’utilizzatore finale di tanta fortuna possa continuare a giocare a pallone e basta, a vincere 6 Palloni d’Oro, e infine a divertirci per questo residuo d’estate con una querelle di calciomercato di un’enormità inedita.

Il protagonista è dunque Jorge Horacio, più che Leo. Quello, Leo, gioca a pallone. Che volete che ne sappia. Padre Messi. Parliamo di lui.

Lo stratega praticone che salvò il figlio dall’ipopituitarismo – tradotto dalla stampa in nanismo, ma non è proprio così – portandolo prepubere al Barcellona quando Newell’s Old Boys e River Plate rifiutavano di pagargli le cure, rispetta tutti i parametri del “papà ingombrante”. La dannazione postuma del campione che ne parlerà dolente promuovendo la sua biografia, da Agassi in poi. Quello che atterra a Barcellona nel pieno della più grossa tempesta che il club blaugrana ricordi e detta ai giornalisti la prima storica sentenza: “Non so niente, ragazzi”.

Fanno sempre così quelli che sanno tutto, perché sono essi stessi i mandanti della baruffa. Poi incontra la dirigenza per un’ora e mezza e ovviamente resta tutto appeso alla prossima riunione.

“Leo non è attaccato al denaro. Ma suo padre è diverso, è doppiamente avido”, ha lasciato agli atti Joan Lacueva, dirigente responsabile del settore giovanile del Barcellona nel 2001, personaggio fondamentale nella trattativa che portò Messi in blaugrana, nel libro “Né re né Dio, semplicemente il migliore”, di Alexandre Juillard e Sebastian Fest.

Tra contratti rinnovati con una frequenza esponenziale e sponsorizzazioni sempre più ricche, Padre Messi s’è sporcato le mani e la fedina penale per lasciare che il figlio potesse poi un giorno candidamente rispondere ai magistrati «Se me lo dice mio padre, io firmo a occhi chiusi», senza timore di passare per un bambino viziato.

Dal quel primo sudatissimo contratto vergato a penna su un tovagliolo da Charlie Rexach, Messi ha scalato accordi su accordi, fino ad arrivare al muro della clausola da 700 milioni che ora è oggetto del contendere. Nel frattempo Jorge Messi gli risolveva le questioni burocratiche che volevano impedire al piccolo talento l’esordio nei campionati giovanili, metteva una contro l’altra Nike e Adidas e finiva accostato a un’indagine, nel 2013, che lo ipotizzava intermediario tra organizzatori di eventi senza scopo di lucro che in realtà riciclavano denaro sporco e i cartelli colombiani. Lui, Messi senior, era accusato di aver intascato “commissioni” del 10-20% sugli affari conclusi anche grazie a lui. Plata o plomo, il livello è quasi quello. Tanta plata, tantissima. Seguirono smentite ufficiali, ma l’immagine di affarista borderline aveva mediaticamente trovato le sue conferme.

Padre Messi è uno, per dire, che ha battuto la Nike. Leo ha sempre usato scarpini con lo “swoosh”, ma quel volpone del papà non gli ha mai fatto firmare un contratto che lo vincolasse. Per cui, quando nel 2006, poco prima del Mondiale tedesco, Adidas arrivò con un’offerta da 1 milione di euro a stagione, i Messi accettarono. Ne seguì una scontata battaglia legale, con Nike che rivendicava in tribunale i diritti che sosteneva di avere sui piedi del campione. La spuntò Adidas. Il Barcellona – non è un dettaglio da poco – era sponsorizzato Nike, e il futuro presidente Sandro Rosell era uomo Nike in Spagna. E’ il primo vero precedente in cui il club més que un Club è costretto ad abbozzare per tenersi Messi.

A quell’accordo dorato con Adidas lavorò Marka group, l’agenzia di procuratori argentini che curava gli interessi di Messi. Jorge ha lasciato il segno anche lì: Fabián Soldini, Martín Montero e Horacio Gaggioli furono liquidati senza ricevere il 10% di commissioni su premi, rinnovi di contratto e accordi commerciali che rivendicavano. I tre fecero causa anche per i danni economici derivanti dalla cessazione del rapporto professionale col calciatore più ricco del pianeta.

E poi c’è la frode fiscale. I contratti che permettevano di trasferire parte dei diritti di immagine incassati tra il 2007 e il 2009 su fondi in paradisi fiscali come Uruguay e Belize sono controfirmati da Leo, ma il sistema di camere stagne sui generis che governa questo rapporto padre-figlio permisero alla Pulce di dichiarare davanti alla Audiencia Nacional di Barcellona:

“Non pensavo che mio padre potesse ingannarmi: ho firmato perché di lui mi sono sempre fidato. Non mi sono mai interessato a questi problemi, quindi non sapevo che stavo infrangendo la legge. Io ho sempre pensato solo a giocare a pallone, per il resto c’erano mio padre e i miei avvocati”.

E il padre, sulla stessa linea, si disse ugualmente innocente:

“Non mi intendo di aspetti legali, volevo solo facilitare la vita a mio figlio, sostenerlo e permettergli di pensare solo al calcio”.

I due finirono condannati dalla Corte Suprema spagnola. Il giocatore che voleva solo giocare, a 21 mesi di carcere. E il padre che voleva solo farlo giocare, a 15 mesi. La prigione fu presto convertita in soldi, chiudendo il cerchio: un’ammenda di 455 mila euro per il figlio, 180 mila euro per il padre. E vissero felici e contenti, fino alla pandemia.

I giorni nostri, appunto. In cui prima ancora che Messi decidesse di stracciare il contratto col Barcellona, Jorge sposta la propria residenza in Italia per approfittare delle agevolazioni fiscali italiane. A Milano, proprio di fronte alla sede dell’Inter. I nerazzurri photoshoppano Messi davanti al Duomo per promuovere la squadra in Cina, e si sa come vanno queste cose: l’Inter diventa possibile e chiacchierata ipotesi di futura destinazione qualora davvero Messi riesca a liberarsi dalle catene contrattuali blaugrana. Ecco in cosa si traduce ogni mossa del papà. In leve economiche, sponde da sfruttare, nuove possibilità di fare soldi.

Messi, in fondo, voleva solo giocare a pallone. Il padre è quello che ha il potere di farlo fallire, a sua insaputa.

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