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Non è che si sta esagerando con il divismo degli allenatori?

Sono ormai equiparati a stregoni che studiano la formula magica. I giocatori ridotti a soldatini obbedienti. L’assenza di pubblico ha esasperato tutto questo. Ma qualcosa si sta incrinando

Non è che si sta esagerando con il divismo degli allenatori?

Qualche giorno fa, su Facebook, rispondendo a un lettore che lo incalzava mettendo in discussione la presunta grandezza di Messi, Roberto Beccantini – giornalista che non ha bisogno di presentazioni – scrisse:

Vivaddio come riconosciamo lo status di guru a certi mister, perché non riconoscere lo status di deus ex machina a certi giocatori, Maradona, Pelè, Di Stefano, Cruijff, Schiaffino, Puskas, Messi, Cristiano Ronaldo in ordine sparso?

Beccantini coglie un punto che la pandemia e le fasi finali di Champions ed Europa League hanno ulteriormente evidenziato. Non siamo arrivati a un livello eccessivo di divismo degli allenatori? In molti casi l’allenatore sovrasta mediaticamente, e quindi nella considerazione sportiva, i calciatori. Questo avviene in maniera sistematica da quando si è affermata la visione esasperatamente tattica del calcio. Da quando ogni minuzia che accade sul terreno di gioco viene fatta discendere da un’idea di gioco, da uno schema, da un’intuizione del grande alchimista che è il signore che siede in panchina.

A Napoli, 2000-2001, la stagione cominciò con Zeman. Uno Zeman già sul viale del tramonto. Aveva stupito col Foggia, aveva regalato gioie e dolori con Roma e Lazio, e aveva lanciato la bomba calcio e farmacia. Quindi parliamo di Zeman già metabolizzato. Eppure, nelle sei giornate che Zeman resistette sulla panchina azzurra, l’allora giocatore Fabio Pecchia si distinse per un’affermazione che fece molto discutere in città: «Gli schemi di Zeman non li capisco».

Oggi una frase del genere sarebbe impensabile. L’impalcatura geometrica dell’allenatore non è messa in discussione. Può essere criticata, questo sì, ma nessuno direbbe mai: «Non lo capisco». Perché il lavoro dell’allenatore è diventato quasi un dogma. È come se fosse diventato una sorta di scienziato, l’unico in grado di trovare la formula che va seguita alla lettera per arrivare alla vittoria. L’analisi del linguaggio degli allenatori sarebbe molto divertente e istruttiva.

«Se faranno quello che abbiamo studiato negli allenamenti, domani vinceremo», disse Arrigo Sacchi a Usa 94 prima del match contro la Norvegia. Con tanti saluti allo schema a zig-zag di Pelè in “Fuga per la vittoria”. Per tener fede al proprio credo, Sacchi definiva Maradona il migliore di tutti perché «sapeva un secondo prima degli altri dove sarebbe finito il pallone». Ci permettiamo di aggiungere: e sapeva cosa farne: segnare partendo dalla propria metà campo e di mano nella stessa partita, ai Mondiali, o di testa da fuori area contro il suo Milan o in tanti altri modi. Perché Maradona era un genio calcistico. Che ha vinto con Bigon e Bilardo in panchina, oltre a Bianchi.

Da allora, da Sacchi in poi, è cresciuta la figura messianica dell’allenatore (anche se il primo divo fu Helenio Herrera). Non è un caso che il gioco che più di tutti ha sfondato è il fantacalcio che dà a tutti l’illusione di allestire una squadra. Lo stesso vale Football Manager. Tutti vogliono fare gli allenatori.

Ovviamente a questo ruolo ha contribuito e contribuisce il registro mediatico. È l’allenatore che parla prima e dopo la partita. E lo fa con sicumera, come se stesse parlando di Austerlitz o di Waterloo. Oggi non sentiamo più un tecnico dire: “Ci hanno rubato la idea” come fece genialmente Pesaola ai tempi di un altro calcio.

Giovanni Galeone, qualche giorno fa, ha dichiarato: “Tutta ‘sta gente che arriva davanti al microfono e dice il mio calcio. (…) Ma quale mio calcio? Si è mai sentito un maestro vero come Liedholm dire il mio calcio? E poi i numeri, le percentuali di possesso palla”.

Oggi è l’allenatore che spiega quello che è accaduto in campo, e fornisce la sua versione dei fatti. I calciatori, tutt’al più, rilasciano dichiarazioni che il 99% delle volte sono paragonabili all’eccitazione che provoca una birra analcolica.

Questa crescita di status dell’allenatore ha avuto un riconoscimento persino nel regolamento calcistico. L’allenatore oggi viene ammonito. Proprio come i calciatori. Un tempo al massimo veniva espulso, allontanato dal campo, ma senza il simbolico cartellino rosso. Bastava un garbato invito ad accomodarsi fuori. Adesso, invece, il tecnico è un attore a tutti gli effetti della partita.

Un tempo, non era così. L’allenatore se ne stava seduto in panchina. Facevano notizia i fischi di Trapattoni. Liedholm, con quella voce che aveva – flebile, non gridava praticamente mai – non poteva comunicare durante il match. L’allenatore non poteva nemmeno stare in piedi per tutti i novanta minuti davanti alla panchina: poteva farlo di tanto in tanto, poi doveva sedersi. Durante Italia-Brasile 3-2, Bearzot era sempre seduto quando veniva inquadrato. Immaginate oggi una partita di quella tensione con l’allenatore perennemente seduto in panchina?

Con la pandemia, questo protagonismo si è addirittura esasperato. La mancanza di pubblico e quindi il silenzio negli stadi, ha offerto all’allenatore la possibilità di comunicare in maniera più diretta con i giocatori. Con lo stadio pieno, non sempre le sue grida potevano arrivare a destinazione. E così durante la pandemia abbiamo assistito a tecnici che per tutta la partita hanno guidato i calciatori come se fossero marionette. Dettando i tempi del pressing, invitandoli a inseguire l’avversario, a coprire questa zona o quell’altra del campo, addirittura a chi passare il pallone. Come se tenesse il joystick e i calciatori fossero burattini da muovere a piacimento. Come la Playstation. Ma è davvero così? Viene da chiedersi: ma che cosa fanno durante la settimana? E come facevano gli allenatori di venti, trent’anni fa? Menotti, tanto per fare un nome, non era un allenatore? Un tempo si diceva che il compito dell’allenatore finiva il sabato, e la domenica si vedevano i risultati del lavoro settimanale. Oggi non è più così. Il protagonista mediatico e non, paradossalmente, non sta in campo ma fuori.

La conseguenza è stata la deriva di un egocentrismo che è debordato. Si è arrivati ad alcune situazioni limite, come i non pochi gol – fateci caso – subiti per intestardirsi nella famigerata costruzione da dietro. Perché nessuno può osare mettere in discussione la formula elaborata per conquistare il mondo (ossia fare gol). È più importante la teoria che la pratica. Non c’è partita.

Come dicevamo all’inizio, queste fase finali europee hanno in parte contribuito allo smascheramento della mitizzazione dell’allenatore. Hanno favorito quantomeno la nascita di una analisi  come questa: stiamo esagerando con il divismo? La Champions ci ha detto che l’allenatore più pagato al mondo – Guardiola – ha perso perché vittima della sindrome di Icaro. Dello scienziato che vuole sempre spostare in là i limiti dell’impossibile. Voleva volare, ha sfidato le leggi della natura calcistica. Ha stravolto la squadra, ha schierato la difesa a tre, ha lasciato fuori calciatori fortissimi, e ha perso contro il Lione. “Eh ma se Sterling avesse segnato”. Ma questo vale sempre, perché in campo vanno i calciatori. Appunto.

È finita che la Champions l’ha vinta un allenatore preparato (Flick), non ideologizzato. Perché il Bayern non ha un gioco esasperato se non nel pressing. Non è una squadra dogmatica. Verrebbe da definire Flick una persona normale, senza eccessi.  Ed è un allenatore arrivato su quella panchina quasi per caso, dopo peraltro aver svolto il ruolo di secondo di Löw nel Mondiale 2014 vinto dalla Germania. Mai eccessivo nelle dichiarazioni.

Gli esempi di eccessi, invece, sono tanti. Pensiamo a Conte che si è preso la scena del post-partita con la sua polemica con l’Inter. Polemica incomprensibile ai più. Si parla di questo, non di Gagliardini in campo ed Eriksen in panchina. Nemmeno del campionato che l’Inter ha letteralmente buttato. Tanto Conte è in una botte di ferro, col suo contratto faraonico. Oggi i protagonisti sono sempre e soltanto loro: se pensiamo al Lipsia, il primo nome che viene in mente è Nagelsmann non quello di un calciatore. L’unico che poteva contendergli la ribalta era il centravanti Timo Werner.

Forse qualcosa sta cambiando. Flick è una scelta che va in questo senso. Anche Pirlo, che è una scelta più mediatica. Non si tratta ovviamente di svilire o sminuire la figura e il ruolo dell’allenatore, ma di inserirlo nella giusta dimensione. Non è un mago. Non è un alchimista. Né uno stregone. Forse si dovrebbe tornare o quantomeno accostarsi alla vecchia massima: «Il miglior allenatore è quello che fa meno danni». E magari si agita e urla di meno. I protagonisti restano sempre quei signori con le scarpe con i tacchetti.

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