È un influencer club: mette in mostra i gioielli acquistati sulle bancarelle e ne aumenta il valore. È regina dell’economia green. Dalle ultime 13 cessioni ha incassato 257 milioni
L’Atalanta è la Ferragni del calcio italiano. È un influencer club. Ogni volta che gioca, fa una cosa che si chiama “product placement”: mette in mostra i suoi gioielli, e ne aumenta il valore a scatti da 90 minuti più recupero. Perché i suddetti gioielli un attimo prima erano frattaglie di mercato, venivano via a prezzi da bancarella salvo ora ritrovarseli in vetrina in via Montenapoleone. L’Atalanta è l’albero della cuccagna degli scarti: è ecologica, è sostenibile.
Per quel che vale, l’Atalanta vale tantissimo. Col Napoli, domani sera, è persino un derby, quello dei bilanci in attivo, dei conti sani. Ma a Bergamo la famiglia Percassi – che passa per una narrazione sfocata: non è gente di calcio di provincia, è un impero economico, è un emirato italiano – ha costruito un modello che il Napolista ha registrato citando Moneyball. Niente nomi altisonanti, ma acquisti mirati su altri valori, l’aderenza al progetto tecnico che ruota attorno a Gasperini, un innato bernoccolo degli affari che adesso avrà un nome più trendy che non ci sovviene. Ma il senso è questo: presi singolarmente, i titolari di una squadra ormai famosa in Europa per il gioco spettacolare e i paccheri che rifila un po’ a tutti, appena due o tre anni fa avevano l’appeal di una Duna usata.
Esempi, così chiariamo: Duvan Zapata, preso a 12 milioni dalla Samp, di cui a Napoli sappiamo, e ce ne dogliamo. La “nonna” Ilicic, scaricato dalla Fiorentina per 5,75 milioni, ora ne vale 17,5 (la fonte è sempre Trasfermarkt). Toloi, prima di essere ripescato da Gasperini, fu portato in Italia dalla Roma dell’allora ds Sabatini che lo rispedì in Brasile. Pasalic, bocciato dal Milan, è stato appena riscattato dal Chelsea. E così De Roon. Il Papu Gomez, capitano e top player, strappato al Metalist nientemeno che per 4,47 milioni di euro. Senza dimenticare Muriel scaricato per disperazione da mezza Europa.
L’acquisto più oneroso sostenuto dall’Atalanta in questi ultimi anni di onorata carriera è Luis Muriel, 20 milioni al Siviglia. Malinovskyi, dal Genk, è costato 13,6 milioni. Quell’iradiddio di Gosens appena 900.000 dati come mancia all’Heracles Almelo, il suo corrispettivo a destra, Hateboer, preso per 1 milioncino dal Groningen.
Non c’è bisogno di scadere nel facile giochetto del confronto con le campagne acquisti stellari dei top club. È chiaro che con una cena di Ronaldo ci paghi il cartellino di Gosens. Ma il punto è il corollario, il progetto, l’idea. Provare a riformulare in aspettative attuali (nessuno pensa davvero che l’Atalanta possa vincere lo scudetto, ma andare avanti in Champions si può, lo dimostrano i fatti) quel vecchio film a lieto fine che fu il Verona di Bagnoli, che con Di Gennaro, Tricella, Galderisi, Fanna e Marangon ci vinse lo scudetto dell’85. Moneyball, appunto.
Non c’è niente di improvvisato. L’Atalanta sfrutta perfettamente i meccanismi di una complicatissima economia del baratto, tra prestiti, riscatti e plusvalenze scientifiche. La politica delle cessioni in prestito annuale e biennale con diritto di riscatto ha permesso al club di incidere positivamente sia sul bilancio della stagione corrispondente alla cessione (con i ricavi da prestiti) che su quello della stagione successiva, incassando la plusvalenza per la vendita definitiva.
Solo negli ultimi tre anni (dal gennaio 2017), grazie a 13 cessioni l’Atalanta ha incassato la bellezza di 257,4 milioni di euro. Numeri impressionanti soprattutto per la differenza imbarazzante tra prezzo d’acquisto e di vendita. La cessione alla Juventus di Dejan Kulusevski – un giocatore fatto esplodere al Parma – ha portato ad una plusvalenza di 35 milioni di euro (più altri 9 milioni se scatterà il bonus). Musa Barrow è stato ceduto al Bologna per 19 milioni, Gianluca Mancini fu acquistato per 300.000 euro ed è stato venduto alla Roma per 15 milioni. E sempre alla Roma hanno piazzato Bryan Cristante per 26 milioni di euro, dopo averlo riscattato dal Benfica per 5. Andrea Petagna, prima di finire al Napoli, era stato ceduto alla Spal per 15 milioni, ma era costato appena 1 milione. E via così.
La rappresentazione del miracolo è sbagliata, non c’è niente di esoterico. E’ un piano industriale, peraltro green. L’Atalanta crea valore da se stessa, e poi usa il suo marchio per veicolo di promozione. Una catena di montaggio della bellezza, anche economica.