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L’Atalanta è un esperimento genetico, tra Robocop e Moneyball

Mercato scientifico, tecnica, tattica e atletica: la famiglia Percassi ha costruito una macchina perfetta (che può funzionare solo in provincia)

L’Atalanta è un esperimento genetico, tra Robocop e Moneyball

Gasperini era in tribuna squalificato. I tifosi a casa, sul divano. La Lazio era avanti 2-0. E nessuno – a parte qualche insicuro patologico – è stato sfiorato dalla sensazione che l’Atalanta non avrebbe vinto la partita. I tre gol della rimonta hanno preso vita nell’esatto istante in cui la macchina, subiti un paio di contropiedi un po’ così, ha sferragliato sputando ruggine per poi placidamente mettersi a produrre calcio. Come in catena di montaggio.

L’Atalanta che Gasperini osservava dall’alto della tribuna come un dottor Frankenstein, tra il meravigliato e l’intimorito, è esattamente questo: Robocop. L’ha ammesso pure il tecnico, prendendosene il merito:

“ho la sensazione che questa squadra abbia sempre meno bisogno dell’allenatore”

Gasperini s’atteggia come uno che scinde l’atomo a colazione, prima d’andare al bagno, ma la sostanza è vera. Ormai la sua squadra è una creatura che ammette solo la resa incondizionata: “vivo o morto, tu verrai con me”, ve lo ricordate?

I tre mesi di lockdown nel dramma di Bergamo hanno forse aggiunto una definitiva perdita dell’innocenza ad un progetto che continua a passare sui media con l’epica della sorpresa frutto del genio, dell’improvvisazione. Invece non dovrebbe essere troppo disdicevole segnalare che l’Atalanta è il sogno di Moneyball tradotto in calcio.

Netflix l’ha infilato in catalogo da poco, quindi il riferimento è fresco abbastanza: il film con Brad Pitt racconta la storia (vera) di una squadra di baseball che non riesce a competere con le concorrenti più ricche. Alla fine soccombe sempre, come le provinciali fanno anche nel pallone italiano sterminati i romantici anni 80. Brad Pitt, che di quella squadra è il manager, si rompe le scatole e tenta la rivoluzione di metodo:  si affida ad un giovane economista un po’ sfigato uscito da Yale, che cambia le strategie del mercato. Lo studio scientifico dei numeri e delle statistiche può cambiare il modello: non c’è bisogno di sperperare, basta vedere valore dove gli altri non lo vedono. Pare, spiccicata, la storia dell’Atalanta della famiglia Percassi. Con un po’ di distinguo, certo. Ancora ieri in tv veniva riprodotto il “miracolo” di una società di ex giocatori di livello, “uomini di calcio”. I quali, riposti gli scarpini, hanno costruito un silenzioso impero economico, ma pare brutto ricordarlo, suona male, non fa poesia.

Però il modello filosofico e gestionale è quello, e si traduce sul campo in un complesso di certezze tecniche e tattiche che – appunto – hanno scavallato la precarietà della “sorpresa”. Ora l’Atalanta è un destino, spesso una sentenza. Pure se se sei in vantaggio di due gol, e sei la Lazio che ha lavorato ai fianchi dell’emergenza sanitaria per tornare in campo a vincere lo scudetto, li guardi e li temi. Perché quelli di là se ne fregano: vivo o morto andrai con loro.

Torniamo ancora un attimo a Moneyball. I laterali dell’Atalanta, da Gosens, ad Hateboer, a Castagne, prima di essere dell’Atalanta chi erano? Ora non sono solo giocatori di riconosciuta levatura internazionale, ora fanno parte di un marchio, un brand: sono dell’Atalanta. Hanno un’identità tutta loro. E così i “vecchi” talenti cristallini tipo Gomez e Ilicic, che prima di arruolarsi nella tana delle tigri di Zingonia girovagavano per contratti più o meno vantaggiosi, ma senza un vero perché. Di Zapata abbiamo scritto, è un cruccio napoletano che fa ancora male. Eccola, la rivoluzione.

Gasperini ha fatto il resto: i suoi corrono sempre il doppio degli altri, e lo fanno intrecciando una pressione offensiva costante che – dai e dai – alla lunga prima intimorisce e poi avvilisce l’avversario (tranne il Napoli dell’innominabile Ancelotti, ma facciamo finta che no). Gasperini, persino lui che ha un ego che fa provincia e batte moneta, sa che questa congiunzione astrale è possibile solo nella piccola piazza. Ché la grande città – che sia la Milano che l’ha ripudiato in fretta e furia, o le schizofreniche Roma e Napoli, figurarsi Torino – non ha granché bisogno della rivoluzione, è establishment o preteso tale. Invece a Bergamo il cerchio si è chiuso benissimo. Tanto da diventare ora una fenomeno europeo, ben oltre lo stupore nazional-popolare che ancora l’avvolge.

Spoiler: alla fine poi Moneyball e Robocop si chiudono in agrodolce, entrambi, senza lieto fine. L’Atalanta mica vince lo scudetto, quello resta in città. Però val la pena di godercelo, tanto poi Netflix ne farà un documentario.

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