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Le lacrime di Callejon, l’altra faccia di Mertens

Il simbolico addio di un giocatore di nascondino, mai plateale, sempre indispensabile. Raccontato sempre e solo nella sua versione tattica

Le lacrime di Callejon, l’altra faccia di Mertens
La foto è di Alessandro Antinelli

Gli altri sono scattati, in fuga come un gruppo. Callejon ha trovato un muro invisibile. S’è piantato lì, ad un passo dalla panchina. S’è genuflesso. Ha infilato la faccia tra le mani, posato lo sguardo sul prato dell’Olimpico. E s’è messo a piangere. Come uno che non piange mai. Triste. Solitario. Y final.

Gattuso, sullo sfondo, s’è appuntato quella foto dell’anima. Poi ne ha fatto parola alla squadra riunita in cerchio.  Il sonoro strappato alle porte chiuse ha regalato alle tv un “qua c’è gente che piange, che deve andar via a scadenza…”. In un scena da film ricamato sulle grandi lezioni dello sport. Ogni maledetta domenica, quell’epica lì. Davanti a lui il presidente, che a settembre aveva chiamato Callejon “marchettaro”, al sol pensiero che finisse in Cina per una vile questione di soldi, “a fare una vita di merda” con Mertens.

Le due facce di una stessa medaglia che si rompe, nel mezzo di festa, con una Coppa Italia che per lo spagnolo è la seconda, addirittura. Mertens, il miglior marcatore della storia del Napoli, fresco di rinnovo e in piena storia d’amore con la città. Callejon, accasciato sul prato, raccolto in una preghiera intima.

José Maria Callejon s’è nascosto un’infinità di volte, le lacrime romane hanno rovinato l’estremo tentativo di mimetizzarsi una volta di più. Hanno messo un punto sentimentale, proprio mentre le emozioni di Napoli squadra e città finivano per brillare: avevano tutti una voglia di ballare che faceva luce, direbbe Guccini. Lui è quello nel cono d’ombra che notavi solo quando sviluppavi le foto della festa e ne apprezzavi i dettagli: ma chi è quello? Te lo ricordi?

Sì, se lo ricordano tutti alla fine. Perché Callejon è stato l’uomo indispensabile di tutti gli allenatori degli ultimi 7 anni di storia del Napoli. E probabilmente lo è ancora. Girava il mondo, intorno. Capriole, arrivi e partenze. Ma Calle no, una statua invisibile. Un monumento alla cazzimma: l’aggiratore professionista, campione del mondo di nascondino dietro la linea del fuorigioco. Paradossalmente sempre in gioco sulla fascia destra. Un calciatore unanime, ecco.

La tagliola tattica, però, è solo la parte evidente – l’unica – della sua vita azzurra. E’ sui taccuini di mezza Europa, cosa vuoi scriverne ancora. Però quelle lacrime… quelle sono un’inedita crepa nella sua narrazione. Semmai ci tenesse ad averne una.

Un attimo prima, tenuto in panchina Politano, Callejon aveva fatto una partita difensiva da incubo, con ben tre appoggi tre, in serie, che rappresenteranno nel computo finale le migliori invenzioni offensive della finale juventina. Colpa un po’ sua, un po’ del dogma della costruzione del gioco da dietro. Ma insomma: nel Napoli-Maginot di Gattuso fallire la fase difensiva è un peccato originale.

Però il campo non c’entra. Questa è un’altra faccenda: ha a che fare col destino, con le tappe della vita più che della carriera. E’ un pezzo di Napoli che finisce in silenzio, coperto dal fracasso di un Capodanno azzurro in pieno giugno. E’ una porta che non sbatte, ma si socchiude lieve in modo che gli altri non sentano, non se ne accorgano, non se ne facciano un cruccio.

Peccato. Sgamato nell’atto finale di contrizione. Triste e Solitario. Final, soprattutto.

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