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«Mi avevano dato per morto all’Heysel. Mi risvegliai in ospedale, non sapevo niente»

La Stampa intervista Carmelo Di Pilla uno dei sopravvissuti: «Ricordo che fotografai Grobbelaar, poi l’onda dei tifosi del Liverpool. Rivedendo a quella foto, penso a chi non c’è più»

«Mi avevano dato per morto all’Heysel. Mi risvegliai in ospedale, non sapevo niente»

Trentacinque anni oggi. Da quel terribile 29 maggio 1985, quando, poco prima della finale di Coppa dei Campioni Juventus-Liverpool allo stadio Heysel di Bruxelles, gli Hoolingas invasero il settore Z, occupato dai tifosi bianconeri. Fu una strage, con 39 morti (32 italiani) e più di 600 feriti.

Carmelo Di Pilla era lì, nel settore dei tifosi juventini. È tra i sopravvissuti a quella sciagura. La foto che lo ritrae è un simbolo della tragedia. Oggi La Stampa lo intervista.

«Pensavano fossi morto, invece sono nato: il risveglio in ospedale, a notte fonda, è stato il mio ritorno alla vita».

Di Pilla racconta quel giorno terribile.

«Avevo prenotato la tribuna con tre amici, scoprimmo d’essere in curva quando ritirammo i biglietti e nemmeno ce la prendemmo più di tanto: contava esserci ed eravamo felici, volevamo cancellare la delusione di Atene dove avevamo visto festeggiare l’Amburgo».

Veniva da Isernia.

«Raggiungemmo Ciampino in auto di buon’ora, il volo in mattinata, un giro per la città e alle cinque del pomeriggio già allo stadio. Si respirava un clima di festa, eppure un paio di cose mi trasmisero sensazioni bruttissime. Nel grande parco davanti all’Heysel sciamavano gruppi di inglesi già ubriachi. E la struttura mi apparve subito inadeguata: l’ingresso del nostro settore era una porticina rugginosa».

I posti, all’epoca, non erano assegnati. Sui gradoni, dice, c’erano persone sorridenti e bandiere bianconere.

«Però mi inquietava quell’onda rossa che diventava sempre più gonfia e minacciosa: i tifosi del Liverpool urlavano e spingevano, lanciavano sassi e bottiglie rotte, guardavo dalla loro parte e li vedevo sempre più vicini».

Poi ci fu l’inferno.

«Entrò in campo Grobbelaar, afferrai la macchina fotografica e cominciai a scattare. Vidi che erano le 18.50, la strage si consumò poco dopo».

Di Pilla ricorda le grida.

«Grida e rumore. Paura e affanno. Gli hooligans entrarono tutti insieme nel nostro settore, l’onda rossa tracimò e travolse tutto: mi mancava l’aria, non avevo voce per gridare aiuto, mi sentii spinto in avanti e sballottato, calca e dolore, poi soltanto buio».

Quando si risvegliò, era in ospedale.

«Aprii gli occhi nella penombra, c’era odore di medicine e disinfettante, un’infermiera mi spiegò in breve cos’era successo. Io però ero sotto choc, non mi rendevo conto di quello che avevo rischiato e ignoravo le dimensioni della tragedia. Chiesi il risultato della partita. Solo più tardi realizzai che a casa potevano essere in pensiero e cercai disperatamente un telefono: mia moglie, per fortuna, non aveva seguito la partita in tv e non sapeva, mi emozionai sentendo la voce di mio figlio che aveva appena quattro anni».

Intorno a lui c’era uno scenario da guerra, racconta.

«Sembrava di attraversare un sentiero di guerra. In quella corsia come sull’aereo che ci riportò a casa. Vedevo persone bendate e ingessate, visi gonfi di lividi e vestiti insanguinati. Rimasi di pietra vedendomi allo specchio: avevo il volto tumefatto e continuavo a domandarmi se ero io. I dolori erano forti, ma la voglia di tornare a casa superiore, così mi misi in processione con altri sopravvissuti: tornai in Italia con un paio di pantofole di plastica che mi avevano dato in ospedale».

La foto che lo immortala è rimasta nella storia. Di Pilla la vide sulla prima pagina di un giornale mentre era in aereo per tornare a casa.

«Tremavo e ringraziavo il cielo, le persone attorno mi additavano. Oggi, rivedendola, penso che la seconda metà della mia vita è un regalo: avevo trentasei anni, ne sono passati ancora trentacinque. Sono tornato allo stadio infinite volte, per fare il mio mestiere di fotografo e per ubbidire alla mia passione di tifoso, ma quella notte è un ricordo incancellabile: ci penso spesso, e penso a chi non ha avuto la mia fortuna».

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