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«Il calcio non può essere solo un modello di business. Il tifoso non è un carrello di Amazon»

In Germania il dibattito sulla ripresa del calcio non è alla vaccinara come da noi. Su t-online la lectio dell’esperto di marketing Zitzmann: «Lo sport non può prescindere dal proprio valore sociale»

«Il calcio non può essere solo un modello di business. Il tifoso non è un carrello di Amazon»

Nel nostro girovagare tra giornali stranieri, l’altro giorno ci siamo imbattuti in t-online.de un giornale tedesco che ha ospitato l’intervista a Younes. Intervista che ha rivelato in maniera disarmante quanto la differenza la faccia l’intervistatore ben più che l’intervistato. Se a un calciatore si chiede sempre se voglia vincere o cosa porti nel cuore del pubblico, molto difficilmente verrà fuori un’intervista come quella a Younes.

L’informazione tedesca è molto interessante. In Germania, così come in Spagna del resto, oseremmo dire ovunque tranne che in Italia, il giornalismo sportivo non è rivolto alla categoria dei sub-umani ma a persone colte, preparate, curiose, che sono appassionate di sport e quindi anche di calcio ma non per questo non sanno andare oltre concetti basic come: “Mamma son contento, ho fatto uno”.

Non abbiamo letto in Germania articoli sul presunto liberalismo svilito dalla mancanza del campionato di calcio. Altrove, fuori dai confini nazionali, il liberalismo è questione seria, non somiglia alla versione guzzantiana della Casa delle Libertà.

Nessuno grida al terrorismo economico. Anzi, proprio nel Paese che per primo dovrebbe tornare in campo, è possibile leggere articoli maturi che svelano la complessità del tema. Visto che in piena pandemia – sia pure, si spera, per alcuni Paesi in una fase crepuscolare – si tratta di tornare a praticare uno sport che non può rispettare la regola base di questi tempi drammatici: il distanziamento sociale. E quindi tornare a giocare a calcio creerebbe una situazione di privilegio e di disparità rispetto al resto della popolazione che a pallone non può giocare. Un liberalismo declinato più alla Marchese del Grillo.

In Germania vanno persino oltre. Perché non basta dire “il calcio è un’industria” per far aprire le acque come fece Mosé. Lo capirebbe anche un bambino di cinque anni (dovremmo poi chiederci come mai un’industria che fattura tanto, sia governata da persone che non conoscono nemmeno la curva della domanda e dell’offerta). Non può essere un passe-partout, come svela – in un’intervista proprio a t-online.de (che qui riportiamo) – Robert Zitzmann esperto di marketing diverso, presentato come uno dei tre amministratori delegati dell’agenzia di marketing sportivo più premiata della Germania la “Jung von Matt / Sports”, e membro onorario del consiglio di amministrazione dello Sheffield FC la più antica squadra di calcio del mondo. Il motto della pluripremiata agenzia è “restiamo insoddisfatti”. Da qui la domanda del giornalista: di cosa sei più insoddisfatto nel settore sportivo in questo momento?

Zitzmann non si tira indietro. «Adesso, nel settore, c’è una volontà di discutere di come funziona lo sport professionistico di alto livello.Prima questa esigenza non c’era. L’emergenza coronavirus ha determinato una netta frenata a livello finanziario. Adesso vengono poste le domande giuste sul funzionamento del sistema e si spera che le risposte siano altrettanto giuste. A parte questo, però, penso che molti protagonisti passino troppo rapidamente alla domanda su come sia possibile tornare a giocare in Bundesliga. Ovviamente comprendo perfettamente la voglia che tutto torni al proprio posto, è la pretesa  dei club. Ma credo che non si stiano facendo un grande favore coloro i quali adesso stanno trascurando le questioni sociali e si stanno invece concentrando esclusivamente sugli aspetti commerciali legate alle partite a porte chiuse».

Zitzmann preferisce non approfondire il tema “come riuscire a capitalizzare il calcio a porte chiuse”. 

«Non credo che sia il momento di provare a rendere accattivante il calcio a porte chiuse. C’è molta tensione e c’è molta sensibilità sull’argomento. La Lega calcio tedesca ha fatto bene a evitare grandi campagne di sponsorizzazione durante i primi match. La prima cosa da fare è concentrarsi sulla sicurezza di tutti i soggetti coinvolti nelle partite e non come sistemare enormi striscioni pubblicitari. Forse ci sono sponsor che credono di avere diritto a questo come risarcimento, come compensazione. Tuttavia lo sconsiglio fortemente, mi focalizzerei invece su quel che i club e gli sponsor possono fare per dare una mano a tutti coloro i quali non possono lavorare né giocare a calcio».

Zitzmann rifiuta le domande, non vuole offrire idee su come possa essere resa più efficace l’interazione tra i tifosi e il match a porte chiuse. 

«Oggi ci sono cose più importanti delle azioni dei cosiddetti tifosi digitali. Tra i tifosi si discute dell’opportunità o meno di riprendere, c’è un certo grado di conflittualità e di confusione riguardo alla ripresa del calcio a porte chiuse. Pertanto sarebbe molto più intelligente coinvolgere attivamente i tifosi anziché orchestrare tutto come al solito. Spesso ho la sensazione che alcuni responsabili del marketing nello sport – ancor più del calcio – si comportino come domatori di circo che vorrebbero trasformare i tifosi in consumatori. Quindi, ripeto: ascolterei prima i tifosi e poi, eventualmente, avanzerei idee nuove. Certo sono i club e la Lega a dover decidere cosa fare. Ma un dialogo paritario – e non una imposizione calata dall’alto – è, in tempi di emergenza Coronavirus, la tattica più efficace per non perdere il tifoso e in generale il pubblico prima del calcio d’inizio».

(In Italia uno come Zitzmann sarebbe fustigato dai “““liberali””” di casa nostra).

Zitzmann ha recentemente scritto un articolo intitolato: “Tra valori e valore aggiunto: alla ricerca di un anticorpo per un futuro sano dello sport”.

Zitzmann sintetizza: «A mio avviso, la redditività dello sport non può prescindere dalla sua rilevanza sociale. Questa è il nocciolo della questione. È un documento di prospettiva per i valori fondamentali che devono guidare lo sport in futuro. La tesi di fondo è che senza valori non c’è valore aggiunto. In parole povere solo se lo sport capisce che è più di un modello di business, può diventare il miglior modello di business al mondo. Il valore aggiunto sociale dello sport deve andare di pari passo con la sua forza economica».

Perché lo sport si è allontanato così tanto dalle proprie radici, dai propri valori?

«Perché lo sport, in quanto modello di business, ha obiettivi economici. Ciò ha a che fare con un’economia di libero mercato. Non è diverso da altri settori. Tuttavia se lo sport vuole mantenere il proprio potere economico, deve trovare un equilibrio più sano con il sociale. Indipendentemente dal fatto che si tratti di un contratto televisivo o del prezzo dei biglietti. Lo sport non può guadagnare sempre di più se i suoi consumatori non hanno più soldi per pagarlo. Lo sport non può solo diventare più ricco, deve essere più giusto.

«L’umanità ha reso lo sport un settore di successo, così come tutti i fan e gli spettatori che sono rimasti fedeli in tutte le crisi. Innanzitutto perché lo sport è un prodotto multimediale divertente. In secondo luogo perché lo sport, per il ruolo di modello sociale, ha un’offerta più ampia rispetto ad altri prodotti multimediali. Lo sport emoziona. Lo sport unisce. Proprio tra le giovani generazioni si registra una forte aderenza a questi valori, al di del risultato sportivo. Lo sport deve tornare a questi valori.

E come?

«Cinque sono i punti chiave. Uno è l’integrità: coloro che sono disposti a investire nel benessere degli altri durante la crisi, prima o poi saranno ricompensati. Un esempio: se, come giocatore, rinuncio volontariamente al mio stipendio per il bene del mio club, i tifosi e i media lo ricorderanno per molto tempo.

«Abbiamo condotto un sondaggio secondo il quale il 62 percento degli appassionati di sport in Germania considera in modo positivo che gli atleti molto bene retribuiti rinuncino al denaro durante la crisi. Un altro punto importante è la collaborazione. Le grande associazioni mondiali come Fifa, Cio, Uefa non collaborano tra di loro. Perseguono obiettivi diversi. Lo sport ha bisogno di meno politica e di più prospettive comuni. Ora come ora lo spirito di squadra è fondamentale se lo sport non vuole sconfiggersi da solo.

«Un altro punto è la “corporate citizenship”, ovvero la sponsorizzazione a favore dell’impegno sociale. Nell’emergenza coronavirus gli sponsor hanno l’opportunità di arricchire lo sport non solo con loghi e offerte di acquisto, ma anche di aiutare veramente e fare qualcosa di buono. I tifosi lo ricorderanno».

E cita l’esempio di Uli Hoeness che aiutò il St.Pauli.

«Se diventa chiaro che lo sport è ben più della semplice pubblicità per le imprese, può diventare la pubblicità più efficace del mondo. Ciò di cui ha bisogno è la creatività sociale».

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«Si tratta di pensare a come rimanere rilevanti per i tifosi anche in assenza di partite con stadi pieni. Ad esempio, è stata buona l’idea della Fifa di offrire sui suoi canali le storiche partite dei Mondiali come ad esempio la finale del 1966. Così come l’Alba Berlin che ha organizzato lezioni di educazione fisica per i bambini. (…) Il tifoso oggi è diventato troppo un consumatore, come se fosse un utente digitale con un carrello su Amazon. In questi momento, invece, dovremmo conquistarlo come attore culturale per lo sport. Durante la crisi, molte organizzazioni di tifosi si sono rapidamente organizzate e hanno offerto aiuto in maniera autonoma, ad esempio a Dortmund hanno servito cibo per gli anziani, oppure a St. Pauli hanno offerto docce ai senzatetto.

Lo sport professionistico ha ora una storica possibilità di avvicinarsi di nuovo ai fan?

Sicuramente. Per molte persone, lo sport è e rimane l’ambito secondario più bello del mondo. Ed è da questa forza che deve svilupparsi l’intero sistema. Lo sport è divertente e fa bene alle persone. Ed è solo grazie a miliardi di persone in tutto il mondo che adorano così tanto lo sport che pochi guadagnano così tanti milioni ogni anno. Affinché il modello di business abbia successo, il calcio deve assumersi le proprie responsabilità sociali. Questo vale soprattutto per i professionisti che seguiamo e osanniamo su Instagram. Devono dimostrarci che non sono soltanto buoni calciatori, ma che vogliono essere anche brave persone. La crisi provocata dal coronavirus è un’opportunità per rendere lo sport più prezioso a lungo termine.

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