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Il secondo scudetto fu “the last dance” del Napoli di Maradona

Trent’anni fa, oggi. Fu il canto del cigno. Ferlaino trattenne Maradona contro il suo volere e decise che il Napoli sarebbe affondato con Diego. E così fu

Il secondo scudetto fu “the last dance” del Napoli di Maradona

Oggi sono trent’anni dal secondo e ultimo scudetto vinto dal Napoli. Si festeggiò – quel 29 aprile 1990 – l’ultimo grande successo del Napoli di Maradona. Pochi mesi dopo, venne conquistata la Supercoppa italiana con un sonante 5-1 sulla Juventus di Maifredi. Dopodiché partirono i titoli di coda. Per tornare ad alzare, ci sono voluti ventidue anni. Ma sono state soltanto “coppette” come le definiscono spregiativamente a Napoli, dimenticando che prima di Maradona solo quelle sono state vinte: due Coppe Italia.

La celebrazione del secondo e ultimo scudetto del Napoli porta con sé anche la consapevolezza della fine di un’epoca. Trent’anni dopo, vale probabilmente la pena soffermarsi su quest’altro aspetto. In un periodo in cui gli appassionati di sport stanno guardando su Netflix “The last dance” sull’ultima stagione vittoriosa dei Chicago Bulls di Michael Jordan, il paragone è pressoché obbligato. Fu “the last dance” del Napoli di Maradona. Che, proprio come i Chicago Bulls, non seppe rinnovarsi.

Fu uno scudetto diverso, molto diverso dal primo. Quella fu una festa gioiosa. Come lo fu anche quella del 1989. Nel 90 fu contraddistinta fu gioiosa ma fu caratterizzata soprattutto dalla rivincita sulla Milano rossonera. “Amaro Ramaccioni” è certamente il ricordo più goliardico. In mezzo c’era stata la più grande delusione del tifo azzurro, quel 1° maggio 1988 che ha segnato un’epoca. Fu uno spartiacque nel tifo napoletano. Soprattutto allo stadio.

Quella stagione cominciò con la clamorosa protesta di Maradona che non ne voleva sapere di rientrare dall’Argentina. Non voleva tornare. Nell’ultima apparizione il San Paolo lo aveva sonoramente fischiato: Napoli-Pisa.

Diego sarebbe voluto andare a Marsiglia ma Ferlaino si oppose. Ferlaino non mantenne il patto d’onore: “io ti faccio vincere la Coppa Uefa e tu mi lasci andare”. All’epoca i giocatori erano schiavi delle società, non come oggi. Nemmeno l’addio di Ottavio Bianchi, e l’arrivo di Bigon, mise di buon umore il fuoriclasse argentino.

Maradona tornò soltanto alla quinta giornata. Le prima quattro gli azzurri le giocarono senza di lui, con la maglia numero 10 sulle spalle di Mauro. Diego tornò soltanto alla quinta, contro la Fiorentina, con tanto di barbone. Accoglienza tiepida per lui. Entrò nel secondo tempo, con i viola in vantaggio per due a zero, sbagliò anche un rigore ma poi condusse il Napoli alla rimonta. Finì per 3-2. Il pubblico tornò ad osannarlo.

Quella stagione il Napoli andò avanti per forza d’inerzia. Era abituato a vincere. Era una squadra solida anche se già se intravvedevano le crepe. All’andata sconfisse Milan e Inter al San Paolo, ma ne prese anche cinque nella notte di Brema. Diego cominciò a giocare come sapeva, soltanto quando sentì l’odore del sangue, quando capì che il Milan di Sacchi non aveva più. Fu evidente dopo Juventus-Milan: la squadra di Zoff fece letteralmente a pezzi i rossoneri con Rui Barros e Zavarov.

È passato alla storia come lo scudetto della monetina, ma allora era una regola. Nessuno ricorda il gol di Marronaro che l’arbitro Lanese e non vide ed evitò alla formazione di Sacchi la sconfitta a Bologna. Pochi ricordano che in realtà la responsabilità fu del guardalinee. E chi era il guardalinee? Ma Nicchi ovviamente. Sì, proprio lui. Così si fa carriera in Italia. Il Milan non ne aveva più, questa è la verità. Il Napoli non giocò un grande calcio, affatto, ma quando vide il traguardo divenne inafferrabile.

Il punto della questione non è arbitrale. È strategico. Ferlaino aveva tutte le informazioni per comprendere che quello era il canto del cigno. Il giocattolo non si teneva più. Non ebbe il coraggio di fare quel che andava fatto e andò incontro al suo destino.

Kapadia, nel suo bellissimo documentario che potete trovare su Netflix, è uno dei pochissimi a cogliere quanto la festa per il secondo scudetto fosse stata diversa da quella per il primo. Lo fa trovando la reazione di Maradona al fischio finale di Napoli-Lazio. Diego si sentiva in gabbia. E ancora non c’erano stati i Mondiali che sancirono la rottura definitiva tra lui e l’Italia.

Neanche Moggi riuscì a convincere Ferlaino. Le date sono importanti. Ruppe col Napoli il 14 marzo 1991, tre giorni prima di quel Napoli-Bari che vide Maradona sorteggiato all’antidoping. Moggi è capace di prevedere il futuro, non fu capace di far cambiare idea a Ferlaino che portò quella splendida imbarcazione alla deriva.

L’ingegnere avrebbe dovuto intervenire per tempo. Avrebbe dovuto rispettare la promessa con Diego. Non ne fu capace. Ha sempre detto che Napoli non avrebbe compreso. E quindi visse quella stagione probabilmente più consapevole di altri che sarebbe stata “the last dance”. Che il suo Napoli sarebbe affondato con Maradona.

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