ilNapolista

Il grande bluff delle linee-guida Figc: che succede se spunta un positivo a campionato ripreso?

Controlli, isolamento di squadra, ritiri bunker. Poi si va in campo e se un calciatore si ammala crollano tutte le precauzioni: “Va in quarantena”. E i compagni? E gli avversari?

Il grande bluff delle linee-guida Figc: che succede se spunta un positivo a campionato ripreso?

Il concetto chiave è “gruppo-squadra”. La Commissione della Figc che ha stilato il protocollo per una “sana” ripresa del campionato lo battezza tale includendo “giocatori, staff tecnico e medico, magazzinieri e altri uomini utili a far lavorare per tre settimane la squadra, in un ambiente da sanificare regolarmente e isolato dall’esterno”. La Serie A che secondo la Federcalcio tornerà in campo sarà fatta a compartimenti stagni: isolamento finché si può, in campo a contatto il minimo indispensabile. Ma c’è un elefante che si aggira nella cristalleria: che succede se – pur rispettando tutti i protocolli di sicurezza – a campionato ripartito spunta un giocatore positivo? Si interrompe tutto di nuovo? La squadra dell’infetto viene esclusa dalla competizione? E gli avversari a rischio contagio? Che si fa?

Ed ecco che si impalla tutto. L’epidemiologia applicata al pallone, e il buonsenso, cominciano ad incespicare.

Il professor Paolo Zeppilli, cardiologo e responsabile medico Figc, guida la task force di esperti che ha stilato le regole per la ripresa. E alla Gazzeta a domanda diretta ha risposto così: il giocatore positivo “dovremmo isolarlo e valutare bene la situazione. Ma è una cosa che potrà capitare anche  un domani quando tutti saranno vaccinati. Un po’ come accadrebbe, per fare un esempio, se magari oggi un atleta risultasse malato di morbillo, per il quale è vaccinata oltre il 90 per cento della popolazione”.

All’improvviso, dunque, il “gruppo-squadra” svanisce. Resta il singolo giocatore malato, da isolare. Eppure tutto il meccanismo di controlli incrociati previsto per “blindare” una ripartenza che ha ormai preso i crismi dell’insindacabile urgenza si basa proprio sull’isolamento controllato delle squadre. Tanto che anche in Inghilterra i club, nel chiedersi come fare per rimettere la palla in campo, danno per scontato che una eventuale positività di un calciatore rispedirebbe in quarantena tutti compagni e i suoi contatti. E’ un concetto acclarato, ormai. Non serve più un esperto che spieghi il perché. Magari ne servirebbe uno che ri-spieghi un’ovvietà: il livello di contagiosità di una pandemia in corso non è paragonabile a quello di una patologia – il morbillo, nell’esempio infelice del professore Zeppilli- per cui esiste già una immunità di gregge grazie al vaccino.

Le linee guida della Figc, nella fase di test preparatori ai ritiri, parlano addirittura di sottogruppi: fatti da “i soggetti che non hanno accusato mai alcun fastidio, quelli che sono risultati positivi ma con conseguenze lievi e altri che invece si sono ammalati. Questi ultimi, saranno sottoposti anche a Tac polmonare e altri esami cardiologici, cui invece non dovranno far ricorso gli altri gruppi che comunque effettueranno il cosiddetto tampone, ripetuto in ventiquattr’ore, che attesti la negatività e i test sierologici per valutarne gli anticorpi”. Perché “solo a quel punto, superato ogni controllo. Si potrà cominciare a lavorare in un centro sportivo che dovrà avere a disposizione una foresteria per consentire al gruppo di vivere senza spostarsi e avere contatti esterni”.

Il controsenso dell’isolare solo il giocatore positivo e andare avanti con gli altri come se niente fosse rimbalza ancora più evidente da un’altra risposta alla Gazzetta del professor Zeppilli: “Per la prima settimana in allenamento verranno rispettate le distanze. Insomma niente partitelle. Poi, in assenza di controindicazioni, nelle successive due settimane non ci saranno più limiti”.

Ovvero: i giocatori vivranno in piccole comunità isolate dall’esterno, rispettando delle micro-quarantene cautelative, tanto da allenarsi a distanza di sicurezza. Poi però, una volta riavviato il circo, tutto il castello di precauzioni incrociate crollerebbe alla prima crepa: il giocatore positivo va in esilio, ma non i compagni. Semplicemente perché il passo logico successivo – la quarantena di tutto il “gruppo-squadra” – manderebbe a gambe all’aria una competizione ripresa per i capelli, forzando calendari, vincoli contrattuali, difficoltà climatiche (il caldo estivo) e ambientali (le porte chiuse).

Il calcio sta costruendosi una corazza di alibi, comunicando una pretesa attenzione alla salute dei calciatori – “è la nostra priorità” – che in verità non sussiste. Si procede puntando sul mantra di queste ultime settimane: “andrà tutto bene”. E se così non fosse, il sottotesto è chiaro: andrà bene comunque. Deve. Per forza.

 

ilnapolista © riproduzione riservata