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Il calcio italiano si rassegni, la Serie A è finita (sennò ci pensa Malagò)

È impossibile andare oltre il 30 giugno. Non è da escludere il commissariamento del Coni. Il campionato può essere chiuso o annullato (il Napoli tornerebbe in Champions con wild-card alla Lazio)

Il calcio italiano si rassegni, la Serie A è finita (sennò ci pensa Malagò)

Siamo al 17 aprile. In un Paese che continua a registrare più di 500 morti al dì per coronavirus, la Serie A ha quarantacinque giorni per completare il campionato. Quarantacinque giorni per disputare dodici giornate, quindi centoventi partite. Probabilmente con alcuni stadi chiusi. Perché, in tutta onestà, pensare che a Brescia e a Bergamo si possa aprire gli stadi sia pure per match senza pubblico, al momento sembra fantascienza.

Perché quarantacinque giorni? La Fifa lo ha fatto capire, anzi lo ha detto proprio: è impossibile continuare a giocare dopo il 30 giugno. O meglio, è impossibile garantire una proroga ai contratti che scadranno in quella data. Contratti che riguardano i  calciatori così come gli sponsor. Che succede con i calciatori in scadenza di contratto? Chi continuerebbe a pagarli? E cosa accadrebbe in caso di infortunio il 5 luglio? La nuova società ovviamente potrebbe fare ricorso, si opporrebbe al pagamento. È inutile fare i santarellini. Basta ricordare quel che è accaduto in occasione della morte del povero Sala: Cardiff e Nantes hanno dato vita a un contenzioso per sapere se i gallesi dovevano pagare o meno i 15 milioni per il suo acquisto. Sono stati condannati a versare 6 milioni, ma si sono opposti e hanno fatto ricorso. Non osiamo immaginare cosa possa accadere con calciatori in vita, solamente infortunati. Il 30 giugno, tra l’altro, i club devono presentare i propri bilanci (anche se relativi alla passate gestione).

Quindi il campionato deve concludersi entro fine giugno. Ci sono altre complicazioni. Quali squadre accetterebbero di giocare a Brescia e a Bergamo? Il rischio sarebbe altissimo. Potrebbero esserci “obiezioni di coscienza”. È dura costringere qualcuno a mettere a rischio la salute propria e dei suoi familiari. E qui non ci dilunghiamo sul dover sottoporre a tamponi di massa i calciatori mentre il resto del Paese – personale sanitario compreso – è costretto alla messa scalza.

Non siamo come la sottosegretaria Zampa, non pensiamo che il calcio sia un inutile orpello della società contemporanea, ci è chiaro che parliamo di un’industria non più di un gioco. Ma un’industria particolare, con una vulnerabilità. È un’industria dell’entertainment, non un’industria che produce servizi di prima necessità. E in alcuni casi il calcio deve arrendersi. L’emergenza coronavirus è una di queste. Il business, il pur condivisibile timore per le sorti di molte società, non può in alcun modo sopravanzare la tutela della salute pubblica. E qui sorvoliamo sulla fragilità dei conti economici di moltissimi club – non il Napoli – gestiti con fin troppa disinvoltura.

La Serie A, a questo punto, dovrebbe cominciare a lavorare a una soluzione che sia la più condivisa possibile. Una soluzione che scontenti il minor numero di club. L’insistenza del presidente del Coni Malagò non è casuale. Da giorni, da settimane, batte sul tasto della diversità del calcio rispetto agli altri sport. È tutto sotto i nostri occhi. Ieri Malagò, nell’intervista al Corriere dello Sport, è stato sin troppo eloquente. Ha detto che il calcio «non ha un piano chiaro e convincente». E ha proseguito:

io avrei chiuso dentro una stanza la Federcalcio, la Lega di A, l’Assocalciatori, gli allenatori, le televisioni e gli organismi internazionali, Fifa e Uefa, e non li avrei fatti uscire finché non avessero prodotto un documento condiviso. La stessa cosa per B e Lega Pro. Tu cosa sei disposto a lasciare sul tavolo, se la stagione si conclude? E tu, televisione, il 5, il 10, il 15 per cento? Tu, federazione, sei pronta a partecipare a un fondo di solidarietà? E voi, calciatori, a quanta parte dello stipendio rinunciate? Fifa e Uefa, che fate, attingete alle vostre riserve? Come contribuite? Ti rendi conto che a tutt’oggi le televisioni che tirano fuori 1 miliardo e 400 milioni non hanno nemmeno un pezzo di carte della Lega sulla base del quale sviluppare il tema dell’immediato.

La frase sul calcio che non ha un piano chiaro e convincente sembra una frase non casuale. Tant’è vero che sono arrivate sia la piccata risposta della Lega sia la telefonata non certo conciliante di Gravina. Sia Lega sia Figc hanno capito che l’intervista di Malagò non è stata certo buttata lì, potrebbe esserci un piano ben preciso. E il piano potrebbe condurre finanche al commissariamento. L’ex articolo 6, comma 4, lettera f1 dello Statuto Coni recita, tra l’altro che:

“il Consiglio Nazionale delibera, su proposta della Giunta Nazionale, il commissariamento delle federazioni sportive nazionali e delle discipline sportive associate, in caso di gravi irregolarità nella gestione o di gravi violazioni nell’ordinamento sportivo da parte degli organi direttivi, ovvero in caso di constatata impossibilità di funzionamento dei medesimi, o nel caso che non siano garantiti il regolare avvio e svolgimento delle competizioni sportive nazionali”.

Ovviamente sarebbe una extrema ratio, significherebbe guerra aperta. Potrebbe non accadere mai, di certo il calcio deve pensare a una exit strategy. Che può essere la chiusura del campionato alla 27esima giornata. Ma anche l’annullamento della stagione. Annullamento che riporterebbe il Napoli in Champions – varrebbe la classifica dello scorso anno. Alla Lazio andrebbe garantita con la Uefa una wild-card Champions. Così come andrebbe sanata la posizione del Benevento. E qui potrebbe passare la mozione Cellino: venti punti di vantaggio nella prossima stagione di Serie B. Sono soltanto ipotesi. L’unica cosa certa è che – come ha ricordato Malagò – il calcio italiano deve trovare una soluzione. Resta la questione diritti tv. Tutt’altro che secondaria. Ma nel 2020 il calcio ha scoperto che anche le leggi del business hanno la loro vulnerabilità. Bisogna mettere in conto anche una perdita o comunque un accordo con i broadcaster che tuttavia, per contratto, dovrebbero ugualmente pagare quanto previsto nel contratto. Ma in questa situazione è inutile cercare forzature. Si è tutti nella stessa barca: governo del calcio, club, broadcast, calciatori. Va trovato un accordo.

p.s.

La sera del 20 aprile, la situazione è la seguente: si va verso una spaccatura perfetta in Lega Serie A.

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