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Amico sudcoreano che ti preoccupi per il coronavirus, sottovaluti la questione identitaria

Viaggio in aereo con un passeggero che si sfoga ignaro dello spumeggiante Napoli post-ancelottiano finalmente identitario e votato al 4-3-3

Amico sudcoreano che ti preoccupi per il coronavirus, sottovaluti la questione identitaria

“Mi scusi signore, mi permetta di chiarire subito: I don’t have coronavirus”.

Me lo confida il passeggero, dal viso chiaramente asiatico, appena sedutosi alla mia destra a bordo del nostro volo. Forse ha scorso qualche segno di cedimento sul mio viso, quello di chi ha appena letto che lo spumeggiante Napoli post-ancelottiano ha or ora finito di prendere tre gol in casa dal Lecce.

“Va bene” rispondo e non posso fare a meno di sorridere. Il mio vicino è sudcoreano e sfogandosi mi confida di aver dovuto rispondere a domande imbarazzanti durante il suo viaggio nei vari aeroporti europei solo per tranquillizzare le orde isteriche dei bianchi caucasici del continente che si ritrovano dinanzi addirittura un uomo con gli occhi a mandorla. D’altra parte, a chi interessa oggi giorno la realtà? Basta avere un nutrito gruppo di esperti del settore – che so, un opinionista, un commentatore, un ex procuratore, un ex informatore scientifico, insomma tutto fuorché un medico o uno scienziato – e l’informazione necessaria è servita. Per preparare il pappone mediatico abbiamo assodato che il morbo si trasmette per cittadinanza, non c’è bisogno di sottilizzare, caro amico di volo. I lettori non capirebbero. I follower vacillerebbero. Ai seguaci piace il melodramma pandemico, abbi pazienza piccolo passeggero sudcoreano: noi dobbiamo pur credere in qualcosa.

Ti faccio un esempio. A Napoli, tanto per dire, ad alcune migliaia di chilometri di distanza da dove siamo, si è felicemente accettata la verità rivelata della squadra gioiello ereditata da un genio del settore (quello che sta regalando finalmente colore alle grigie giornate allegriane torinesi) che un cattivo tecnico ha male allenato con quel fare tipico da ricco pluridecorato ed è tornato di moda un evergreen – il ritorno all’uomo del sud, pelle dura e tasche vuote, che ha mangiato la polvere e ora è salito alla ribalta. Perché dobbiamo svegliarli, questi beati addormentati nel bosco? Lasciamoli dormire. Cinque sconfitte su otto gare di campionato sono tutto sommato un bottino accettabile se ci assicurano che nessun leader straniero si permetterà mai di mettere in sacrilego dubbio la superiore sagacia partenopea. Il nostro cuore. La nostra storia. E lo stadio si è anche riempito, dico io, cosa volete di più?

C’è poi, amico sudcoreano, la questione identitaria. Essa non va sottovalutata giammai. L’identità è la scusa che usano i terrorizzati cronici per evitare di riconoscere a se stessi di non avere il coraggio di uscire fuori di casa. L’identità è una roba difficile, richiede enorme applicazione. E da quanto leggo, finalmente il Napoli sta lottando per averne una – perché, va detto, oggi senza identità non vai da nessuna parte. Diciamocelo.

Questa domenica, per esempio, mi è capitato di assistere ad una messa cantata in una gemma della Galizia, la Cattedrale Armena in quel di Leopoli, in Ucraina. Ho chiesto ad un vicino di banchetto, che immagino dovesse essere ucraino, se lui ci capisse qualcosa. Mi ha fatto una faccia come quella che ti viene quando leggi che Meret non gioca – quindi ho capito non ci stesse capendo nulla neanche lui. Sconcertato, mi sono chiesto come si potesse seguire una liturgia così lunga ignorando il linguaggio, senza avere un Adani che ti porta passo dopo passo attraverso le pieghe tecnico tattiche della vita.

Poi mi sono girato verso l’entrata dell’edificio e mi sono accorto che l’assemblea, richiamata dal sacerdote, si faceva il segno della croce un po’ alla cattolica e un po’ alla ortodossa. Ed ho capito che a seguire quel canto c’erano uomini e donne di ogni parte d’Europa che di armeno (almeno credo fosse armeni) non ci capivano nulla. Come il sottoscritto.

Che meraviglia, ho pensato, non capirci niente e non doversene vergognare al bar dello sport, fingendo di sapere cosa è una diagonale difensiva. Non una ma molte identità, come disse quel tale. Che liberazione ricevere la bellezza del canto di quei barbuti patriarchi senza riuscire a coglierne una sola parola. Come assistere ad un tiro da fuori senza che nessuno ti spieghi di quanti gradi era piegato il piede dell’attaccante, o guardare una partita senza preoccuparsi del terzo di centrocampo o del figlio dell’allenatore.
Ma tu, amico sudcoreano che non hai il coronavirus, queste sfumature non puoi capirle.
Meglio partire.
Meglio prendere il volo.
Se ti fermano alla dogana tu parlagli del 4-3-3. È vecchia, ma funziona sempre.

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