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A causa del generale Haftar non posso prendere la macchina. Sto lì e aspetto. Mi sento Meret

Mentre il Napoli perdeva contro la Fiorentina, vivevo una strana serata a Berlino. Ho pagato 19 euro per vedere la mirabile Ara che non c’è. Come il 4-3-3

A causa del generale Haftar non posso prendere la macchina. Sto lì e aspetto. Mi sento Meret

È sabato sera e io sono fermo a cinquanta metri dall’entrata di un garage sotterraneo, nei pressi di Gendarmenmarkt, centro di Berlino. Davanti a me una schiera di soldati in tenuta da Guerra del Golfo mi sbarra la strada.

“Ho parcheggiato in questo rimessa qualche ora fa”
“Non possiamo farla passare”
“Come mai?”
“Lo vede quell’albergo che poggia sul parcheggio? Vi alloggia il generale Khalifa Haftar. È in visita per la conferenza di Berlino sulla Libia”
“E tra quanto potrò avere accesso alla mia auto?”
“Cinque minuti, due ore o domani. Chi può dirlo?”

Chi può dirlo? Questo è l’eterno – e falso – problema.
Le cose sanno sfuggire di mano rapidamente attorcigliandosi lungo un qualunque imprevisto. I mediocri si accapigliano a predire il futuro, i più intelligenti sanno piegare agli eventi quanto basta per lasciarli scorrere senza finire spezzati dalla realtà che ti aveva lanciato in corsa contro il Liverpool qualche settimana fa e oggi ti fa pensare ai play out col Lecce.

Il sabato sera tu appronti un dettagliato programma. Hai ospiti. Forse vengono da altre parti del mondo. Pianifichi, chiami in anticipo il ristorante per prenotare dei posti a sedere. Magari parti da Manolas e aspetti a lungo James. Sei un illuso. Il sabato sera, prima di uscire, devi consultare la situazione geopolitica in Medioriente. È più probabile che un golpista nordafricano lasci il segno nel tuo weekend che lo faccia la difesa schierata da Gattuso.

Intanto il Napoli già perde. Da un altoparlante di un bar in lontananza proviene la voce gracchiante e martellante di una canzone di Springsteen – “Is there anybody alive out there?” Il Boss insiste a chiedersi se c’è vita lì fuori. Pare non ce ne sia, almeno non aldilà del tiro a giro.

Siamo reduci da un giro al Museo di Pergamo a Berlino. La mirabile Ara, qui conservata, non è al momento visitabile a causa di un restauro che durerà anni. Paghi diciannove euro di biglietto per sperimentare un’assenza. In pratica è come sedersi nei distinti del San Paolo per ammirare il 4-3-3 partenopeo, con la differenza che qui gli ultras non fanno sciopero. I teutonici, infatti, non si sono dati per vinti: hanno commissionato all’artista Yadegar Assisi, a cinquanta metri dal museo, una struttura cilindrica chiusa nella quale il visitatore entra e può immergersi in una ricostruzione visiva e uditiva della Pergamo di duemila anni fa, a 360 gradi. “Das Panorama”, semplice e stupefacente. Sono riusciti a superare l’impasse e a trarre profitto dal problema rilanciando sul futuro senza perder tempo sul maquillage: l’Ara non c’è, inutile provare a tenerla aperta al pubblico lucrando un anno in più per poi vederla crollare decrepita a suon di calcinacci e di portieri che giocano coi piedi. Hanno sostituito una delle dieci meraviglie del mondo con un tendone, facendosi pure pagare il biglietto. A volte un po’ di pazienza rende più del marmo millenario. Operazione straordinariamente difficile ma nulla a che vedere, per complessità, a quanto pare, con la vicenda delle multe delaurenziane inflitte allo spogliatoio sobillante, divenuta ormai case study alla Harvard Business School.

“Scusi, si hanno notizie? Come sta Khalifa Haftar? Quando si sblocca la situazione?”
“Non posso fornirle informazioni. Posso solo dirle che pare non gradisca la camera”.
Mi siedo su una panchina, vittima del non-senso e chissà quando mi diranno di entrare. Mi sento come Meret. È quel momento del sabato sera in cui fantastichi che il generale, indossate le babbucce di feltro rosa, scopra che le saponette in bagno non sono al sapore di camomilla, come aveva espressamente ma segretamente richiesto e cambi albergo. Il momento in cui immagini che metà della tua squadra sia andata via lo scorso luglio, nell’indifferenza generale. Ti svegli e la Fiorentina raddoppia.

Per puro caso – l’unico davvero a contare ancora qualcosa nella vita – leggo in queste settimane un interessantissimo libro di Svetlana Boym, studiosa di Harvard, dal titolo The Future of Nostalgia, in cui si parla di nostalgia restitutiva e nostalgia riflessiva. La prima si prende mostruosamente sul serio: è l’assillo ammorbante di chi rivive costantemente il passato – gli ideologi, i separatisti, i neoborbonici del sentimento, i leghisti ripuliti, i nazionalisti, sicuramente i generali sobillatori che intasano i garage. In una parola: i sentimentalisti. Il sentimentalismo, dice la Boym, è un cancro pericolosissimo. È il distillato del banale. Il sentimentalista si commuove al cinema, ama i bambini ma è sempre un potenziale ed incazzatissimo assassino. Al contrario, la nostalgia riflessiva è conscia della irreversibilità del tempo, ironica, inconcludente, innamorata della distanza, frammentaria – il luogo natio è perennemente in rovina o ristrutturato al limite dell’irriconoscibile. Ciò che rimane è dunque un naturale senso di straniamento che garantisce un minimo di spirito anarchico, a tratti superficiale ma mai illiberale – lo spirito di epicurei buongustai del tempo che trascorre, per parafrasare Nabokov. L’anarchico, al contrario del sentimentalista, cazzeggia. Ecco, soprattutto questo è tramontato, quel senso di fragrante, rotondo e decennale cazzeggio. Siamo una squadra di impiegati, come direbbe la Serbelloni Mazzanti Viendalmare.

Ed il tempo è trascorso. Un’ora e mezza in più di parcheggio forzato da una zona militarizzata. Ultimi novanta minuti agonizzanti a Fuorigrotta. Tutto ci è alle spalle, persino il generale Khalifa Haftar si è mosso. Se invece queste pesanti sanzioni pecuniarie vi bloccano le gambe, cari giocatori; se il punto va tenuto per salvare il proprio salvabile senza ammettere un errore, caro presidente. Beh, se è così, allora, per dirla con un tipo che una volta ci faceva molto divertire, andatevi a fare due bagni.

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