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L’ammutinamento del Napoli è la risposta politico-culturale all’andate a lavorare

Il calcio fa fatica a evadere da questa cornice primitiva, a far capire che è business. Lo stesso De Laurentiis ha voluto sfruttarla. Ma bisogna scegliere: o si è realisti o si è populisti

L’ammutinamento del Napoli è la risposta politico-culturale all’andate a lavorare

C’è qualcosa di fastidioso, almeno per chi scrive, nei commenti del cosiddetto “popolo”, della tifoseria. I calciatori sono ricchi, guadagnano troppo e di conseguenza quando i risultati non arrivano, devono soffrire. È il pensiero perfettamente sintetizzato dai canti delle curve in tutta Italia: “Andate a lavorare”. Perché dare due calci a un pallone non è un lavoro. In realtà lo è. Ed è anche un lavoro ben pagato, a certi livelli. Molto ben pagato. Come succede non solo ai calciatori, peraltro. A Napoli – forse non solo a Napoli – ce n’è anche un altro di coro – “fuori le palle” – che attiene alla visione machista del pallone. Quando si perde, non si hanno gli attributi.

Il punto, almeno per chi scrive, è: guadagnare 1, 2, 3, 4, 7 milioni non è una colpa da espiare. Magari è una distorsione del mercato, del cosiddetto sistema. Ma non vale solo per i calciatori. Vale anche per manager strapagati che magari rovinano aziende e tornano con una buonuscita sufficiente a sfamare dieci generazioni.

Questo ammutinamento del Napoli – che è una delle cose più affascinanti accadute nel calcio degli ultimi vent’anni – è la risposta politico-culturale all’“andate a lavorare”. Potrebbe essere – ma non lo sarà – una svolta nella visione becero-arcaica del calcio. Poche settimane fa, in un’intervista concessa alla rivista Civiltà delle macchine, Ancelotti disse che il futuro del calcio sarà il modello Nba: “si va al campo soltanto per le sedute tattiche, poi ciascuno provvede da sé alla preparazione atletica. Non si può dire, ma già oggi i calciatori hanno preparatori personali che talvolta o spesso agiscono in conflitto con quanto prescritto dallo staff del club”.

Il calcio fa fatica a evadere da questa cornice primitiva. Si fa fatica ad accettare che l’arbitro non sia più il padre padrone delle partite. Si fa fatica a indire una riunione planetaria e a spiegare ai tifosi: “Carissimi, il calcio è business. Sì, contano prima i bilanci, conta prima il fatturato, poi il resto. Non volete capirlo? Preferite fare finta di niente? Benissimo, ma funziona così”.

È il motivo per cui la decisione di De Laurentiis di portare il Napoli in ritiro è una decisione non solo anacronistica ma contraddittoria. Il presidente è passato dalla visione futuristica del calcio – tre tempi, sostituzioni senza limiti, e tante atre cose che conosciamo – al Borgorosso Football Club. Opzione che è piaciuta tanto al popolo. Poi, però, non ci si dive arrabbiare quando lo stesso popolo evoca la parola pappone e ti grida “cacc’e sorde”. Fin qui De Laurentiis è sempre stato abile nel passare da un registro all’altro. Stavolta non gli è andata bene. E non gli è andata bene anche perché lui ha opposto resistenze a un ricambio del gruppo storico.

Qualcuno in queste ore sta facendo un paragone con quanto accaduto nel 1988, la rivolta contro Bianchi. Non è la stessa cosa. Ma, soprattutto, allora era maggio. Fu un duro colpo. Perdemmo uno scudetto già vinto. Però la stagione era di fatto finita. Qui siamo a novembre. Epurare in autunno è molto più complicato, quasi impossibile. Bisognava pensarci a maggio.

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