Sul Giornale. Al termine di un’amichevole giocata nella Germania Ovest fuggì. Morì tre anni dopo in un incidente stradale. Alla caduta del Muro si scoprì che non fu una fatalità

Sul Giornale la storia di Lutz Eigendrf, stella della Dinamo Berlino ai tempi del muro. Della sua fuga a Ovest, della condanna a morte che firmò per se stesso e della terribile vendetta della Stasi, che non poteva sopportare uno smacco del genere.
Lutz Eigendorf nasce a Brandeburgo sulla Havel, a 70 chilometri da Berlino. E’ centrocampista ma non disdegna il gol, quando può.
A 15 anni entra nella Dinamo, a 18 è in prima squadra, a 22 in Nazionale. Diventa il simbolo del club, il capitano.
Odia il muro di Berlino, che lo divide dal mondo. Detesta
“la vita claustrofobia del comunismo reale, la propaganda che vende sogni che non si realizzano mai”.
E odia più di tutto Erich Mielke, ministro della sicurezza nazionale e capo della Stasi.
Il 19 marzo 1979 ha quasi 25 anni. La Dinamo deve andare a giocare un’amichevole con il Kaiserslautern, nella Germania Ovest. Nessuno dei calciatori della squadra è mai stato di là dal muro, nessuno di loro conosce la libertà.
Lui sale per ultimo sul pullman della squadra, in silenzio. Ma ha già in mente il suo piano.
Quando il pullman arriva a destinazione, i compagni sono eccitati, si godono il bagno di folla. Lui no. Scatta in contropiede, si mescola alla gente che passa e si infila in una stradina dove ferma il primo taxi che passa. Si abbassa sul sediolino e dice al tassista:
«Portami il più lontano che puoi da qui, dove non ha importanza».
A casa ha lasciato la moglie Gabrielle e la figlia Sandy. Non le rivedrà più.
Scatta l’allarme, ma Lutz è giò andato. Viene squalificato per un anno dai campi. Gli viene tolta la casa. Alla moglie fanno sposare una sia della Stasi, perché non si sa mai Lutz torni a prendersi la famiglia.
“Per Erich Mielke un affronto insopportabile, la Stasi umiliata da uno che scende da un pullman e se ne va, la Piovra ridicolizzata nel più banale dei modi”.
Lutz passa al Kaiserslautern, poi all’Eintracht Braunschweig. Si risposa e ha un figlio. Sembra che tutti si siano dimenticati di lui, si sente al sicuro.
Si sente così tranquillo che nel febbraio 1983 si fa intervistare dalla tv davanti al Muro di Berlino e racconta com’è bello il mondo libero. Denuncia il marcio del comunismo e invita gli sportivi come lui a scappare proprio come ha fatto lui.
Dietro lo schermo della tv, però, c’è la Stasi. Lo vedono, lo individuano, lo puntano.
Due settimane dopo è vittima di un incidente. La sua macchina si schianta contro un albero all’uscita da una curva a gomito sulla Braunschweig-Querum. Muore poco più di ventiquattr’ore dopo senza riprendere mai conoscenza. L’autopsia gli riscontra troppo alcool nel sangue. Per la polizia è un incidente come un altro.
Sei anni dopo, quando cade il Muro di Berlino, il suo caso viene riaperto perché il suo nome viene trovato su uno dei dossier custoditi negli archivi della Stasi. Viene fuori la verità.
“A ucciderlo sono stati due sicari di Mielke. Bloccata la sua Alfetta, lo hanno costretto a ingoiare allucinogeni mescolati ad alcool, l’hanno rimesso in macchina sicuri che prima o poi si sarebbe schiantato. Sembrava morto come Gigi Meroni, lo avevano giustiziato come Andres Escobar. Ma non c’è stata giustizia per il Beckenbauer dell’Est”.
A trent’anni dalla caduta del Muro niente ricorda Lutz Egendorf
“martire della libertà, eroe ribelle suo malgrado, paladino di un mondo migliore. Anche se il cielo non è più lo stesso sopra Berlino”.
FOTO DA IL GIORNALE