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Napoli è un malato terminale invisibile dove il fratello di Insigne deve dire la sua su Ancelotti

Napoli è un accanimento. Ma è viva fuori Napoli. Ora, resta da capire il ruolo di De Laurentiis che qui ha portato intellettuali come Benitez e Carlo

Napoli è un malato terminale invisibile dove il fratello di Insigne deve dire la sua su Ancelotti

Da anni questo giornale cerca di raccontare ciò che osserva avvenire in un determinato luogo della terra. Lo fa attraverso un titolo che richiama un concetto senza alcuna sostanza: napolista è un aggettivo che non evoca alcun ricordo, non richiama alcuna situazione concreta. È piuttosto un auspicio e, come tutti i termini che vivono di una speranza, non conserva alcun significato reale. Guarda al domani con qualche desiderio. Il motivo, forse, è che esso conserva la radice di un luogo che vive di un eterno equivoco. Napoli. Una città che, come a volte si è cercato di argomentare su queste pagine (virtuali), non esiste.

Napoli è principalmente un accanimento. È la storia di un malato terminale che nessuno ha mai visto, fisicamente, ma che in tanti sono convinti si trovi su un lettino di terapia intensiva, circondato da centinaia di migliaia di persone che accudiscono pazientemente un mucchio di stracci sotto i quali, forse ogni diciannove settembre, si dice si scorga magicamente qualche movimento, magari causato da un dito che si muove. Anche se tutti i medici assicurano non ci sia nessuno.

Questo non-luogo, individuato da una città che non-esiste, è fallito. Nel napolismo è racchiuso, tra le altre cose, il tentativo di lasciare che gli astanti ne prendano atto. Niente viene rigettato da questo non-luogo più di chi indica che, sotto le coperte, il malato non c’è più – o forse non c’è mai stato. Carlo Ancelotti, un distillato di coraggiosa saggezza, principalmente uomo che non prepone alcuna ideologia al racconto asciutto della realtà, non poteva che essere un nemico di questi uomini raccolti al capezzale del non-morto.

Napoli è fallita perché è fatta, principalmente, di uomini e donne che sentono e convivono da anni con un senso poderoso di fallimento, ma hanno deciso di nasconderlo fino a qualunque estrema conseguenza. In totale senso di abnegazione. In religiosa missione. Difficile spiegare quale sia il motivo e forse non è importante per queste poche righe. Si può qui solo dire che una delle spinte principali è l’aver elevato la pigrizia a privilegio e, sulla base di questo assioma, aver sezionato il resto del mondo in modo da farlo rientrare nel proprio limitatissimo microcosmo. Quando un briciolo di senso di realtà, allora, fa breccia in questa diga di antichi spettatori piccoli e grandi, decisi a tenere la propria poltrona fissa sul panorama del malato, il saggio ci costringe a chiederci e a chiedere i documenti degli astanti: chi sono questi signori?

Chi è, ad esempio, “il fratello di Insigne” – oltre la caratterizzazione di consanguineo, come mai dà dello spalluto ad un uomo che ogni campione del pianeta conosce e rispetta? Probabilmente essere solo il fratello di un buon giocatore è una condizione di sudditanza esistenziale che, alla lunga, mostra un peso di inadeguatezza così enorme da non essere più gestibile, se non dietro una piccola maschera. I cari assiepati attorno al malato terminale, infatti, sono tutti mascherati. Il profiletto del social, dove il suo commento pieno di puntini sospensivi – ah! I puntini sospensivi, ci vorrebbe un romanziere per parlarne, il marchio di fabbrica del mondo delle chat WhatsApp, usato come punti e virgole e esclamativi e interrogativi – può comparire e scomparire. Proprio come il malato terminale in sala rianimazione.

Perché, piuttosto che prendere spunto da un faro nella notte, come il signor Ancelotti, Napoli crede di poter commentarlo, di poterlo modificare, di potergli suggerire? Come mai, ad esempio, l’ex rettore dell’Università di Napoli è giustamente attento al dettaglio di una frase dell’allenatore azzurro – “L’errore più grande che possiamo commettere è farci condizionare dal risultato” – tanto da sentirsi l’orticaria, ma conviveva tutto sommato bene col suo importante ruolo istituzionale, seppur non senza qualche polemica, quando la principale e secolare istituzione culturale napoletana viaggiava in zona retrocessione secondo molte delle metriche nazionali ed internazionali disponibili al tempo?

Come mai, attorno a questo lettino d’ospedale, a dar conforto a una non-città, ci sono solo ex? Ex calciatori, ex allenatori di seconda serie, ex procuratori, ex sindaci – a volte sindaci reali, con le scrivanie più ricche di niente di una bancarella di Porta Capuana? Tutti portano, infatti, non-cose. Non-idee. Non-sentimenti. Napoli è solo assenza, cantata e proclamata da un lungo profluvio di fallimenti. Cosa avete fatto, voi cari astanti ed estinti, per questo malato?

Il coro di prefiche si innervosisce molto se un napolista chiama questo disegno al di fuori del suo contesto. Napoli non esiste, ma al di fuori di sé stessa Napoli è viva. È viva in Inghilterra, in Germania, in Canada, in Australia. È viva dove l’assenza non fa paura perché non viene cantata ma vissuta in silenzio ogni giorno. Per mio figlio, di sette anni, indossare il completino azzurro in occasione della marcia longa scolastica a Berlino è stato un atto di coraggio – e quel coraggio gliel’hanno dato, in un atto eroico e gratuito, gli undici e più scesi in campo quella sera contro il Liverpool, e la calma e la forza di un uomo che li ha diretti, che si chiama Carlo Ancelotti. Dunque, la mia domanda è: cosa avete fatto, voi altri, voi critici, coi commentatori per me o per mio figlio, per la gioia nostra e degli altri milioni sparsi al di fuori di questo luogo della terra? Niente. E niente vi dobbiamo. Anzi, se la storia continuerà a trasformarsi in altro, sarà per merito nostro, espropriati e sradicati. Per noi al di fuori di quella stanza di ospedale.

Il fratello, infatti, dirà di aver difeso il consanguineo. Il direttore di aver fatto il massimo per i suoi studenti. Il responsabile della tv locale di avere un bacino di spettatori di tutto rispetto nel napoletano e persino nei dintorni di Caserta. Cosa ci interessa? E perché non si può fare silenzio e osservare – e godere dove si può – cosa fa un uomo che cerca di farci diventare adulti? Anche questa risposta rimarrà inevasa. Un napolista può solo suggerire che il silenzio non si addice a nessun non-luogo, principalmente perché fa paura. Rimanere in silenzio è come provare a stare a fari spenti nel buio pesto mentre corriamo in autostrada. Se rimaniamo in silenzio potremmo accorgerci che esiste la morte, che le voci non giustificano nessuna esistenza. Che sotto i cenci non c’è alcun malato terminale se non nel nostro desiderio frustrato. Per questo a Napoli si addice l’isteria, le urla che si incastrano e si alzano purché non dicano nulla.

L’ultima domanda che rimarrà inevasa è: dove si trova lei, Presidente De Laurentiis? È attorno al non-feretro o al fianco del Saggio Leader Calmo, che lei stesso ha portato a dirigere questa squadra che ha nel cuore la forza di annientare i campioni di Europa e di sciogliersi di fronte ad una qualunque compagine di bassa classifica? Se esiste un solo motivo per cui ha ancora senso parlare di questa eterna commedia napoletana è, infatti, largamente merito suo e degli intellettuali che lei ha portato sulle sponde del golfo – gli unici, veri, intellettuali moderni partenopei: spagnoli o emiliani che siano. Ora c’è da capire se anche lei è parte del gioco delle maschere e stiamo facendo lentamente le valigie al mister, o ha intenzione di lasciar cadere i teatranti della sala d’ospedale.

Il napolista che c’è in me starà, infatti, al fianco di Carlo Ancelotti finanche in serie C. Perché, a differenza della donna di Bellavista, se c’è da morire, piuttosto che farlo tutti assieme, è meglio farlo liberi.

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