Quarant’anni fa, al derby, un razzo lanciato da un romanista centrò in pieno viso e uccise Vincenzo Paparelli. La Gazzetta ricorda quel giorno e non solo
La Gazzetta ricorda Vincenzo Paparelli. Domani saranno 40 anni da quel terribile 28 ottobre 1979, quando, allo Stadio Olimpico, il tifoso laziale, allora 33enne, fu ucciso mentre sedeva in Curva Nord in attesa che iniziasse il derby. Il razzo lanciato dalla Sud romanista dalle mani del diciottenne Giovanni Fiorillo lo centrò in pieno viso.
Pochi giorni fa Sky ha dedicato a Paparelli uno speciale firmato da Matteo Marani. A parlare, allora come oggi, è il figlio Gabriele, papà della piccola Giulia, sette anni, che ha imparato a conoscere il nonno guardando sventolare, allo stadio, le bandiere dedicate a lui.
Da quel giorno, per Giulia, è stato amore a prima vista, scrive la Gazzetta.
Suo padre Gabriele all’epoca aveva solo 9 anni. Ricorda quel terribile giorno.
«Quel giorno mi mandarono dai vicini, ero con loro in macchina, quando appoggiai la testa sul finestrino e per la prima volta pensai che fosse morto mio padre, ma scacciai questo pensiero dicendomi: tra tanti papà proprio al mio deve essere capitato?».
Sono anni che Gabriele tenta di riempire quel vuoto con una specie di missione quotidiana.
«Cancellare le scritte contro papà che per anni, troppo frequentemente, sono comparse sui muri della città. All’inizio lo facevo per mamma, per evitarle di rinnovare un dolore indicibile, immenso. Giravo con il motorino e una bomboletta spray, ero sempre in azione. Mi hanno aiutato gli amici e i social, dove arrivavano le segnalazioni. L’ultima scritta l’ho cancellata un anno fa, in zona stazione Termini. Ogni volta, per me, è stato come rigirare il coltello nella ferita. Perché tanta cattiveria? Perché infangare la memoria di un padre di famiglia? Non mi hanno consentito nemmeno di vivere in pace, se così si può dire, il ricordo di papà».
Quella domenica, Vincenzo Paparelli e sua moglie Wanda non dovevano andare allo stadio, si convinsero solo perché dopo la forte pioggia uscì il sole e il fratello di Vincenzo gli cedette il suo abbonamento. Vincenzo però non volle portare con sé Gabriele, pensava fosse troppo pericoloso.
La moglie Wanda si si ustionò per estrargli dall’occhio il razzo che lo aveva colpito.
Oggi Gabriele ha 48 anni e non va più allo stadio:
«Ho sviluppato una specie di fobia, ho paura, ma forse per mia figlia riuscirò a vincerla. Stiamo pensando di andare a vedere Lazio-Lecce, dovrebbe essere una partita tranquilla».
Il prossimo 4 novembre andrà a raccontare agli studenti la storia di suo padre, insieme a Lionello Manfredonia e Roberto Pruzzo, che quel giorno erano in campo.
«La violenza nel calcio è una cosa che ancora oggi mi risulta inspiegabile. Io in questi anni ho pesato ogni parola, consapevole che anche una virgola sbagliata avrebbe potuto riaccendere una miccia, avvelenare il clima. Di recente, mi ha colpito molto il gesto dell’aeroplano fatto da quel tifoso juventino in sfregio alle vittime di Superga. Devi essere proprio senza dignità per fare una cosa del genere. Per me il calcio è l’immagine di una famiglia bellissima, che aveva poco ma a cui non mancava niente, e in cui si andava tutti insieme allo stadio, per godere lo stupore di un campo verde e di una giornata di festa».