Il clamore di questi giorni è dovuto alle parole di Infantino. Ma è clamore posticcio. La realtà è quella descritta al Paìs da Fiona May. La lettera della Curva Nord interista è ampiamente condivisa
È difficile far comprendere ai non italiani quel che accade nei nostri stadi e in generale nel nostro Paese. Qualcuno potrebbe chiedersi: come mai in Italia non si riescono a prendere provvedimenti nei confronti dei comportamenti razzisti? La risposta è molto semplice: perché non li si considera tali. Quel che nel Regno Unito, in Francia, in Spagna, in Germania, negli Stati Uniti, viene considerato razzismo, in Italia non lo è. Tutto il resto è pantomima. Sono fiction mediatiche dovute a circostanze. L’ultima è stata la dichiarazione del presidente della Fifa Infantino. Come succede a scuola: poiché ha parlato il numero uno della Fifa, allora si fa finta di considerare il razzismo un problema. Giusto il tempo che la maestra esca di classe.
Qualche anno fa, alla guida della Federcalcio venne eletto Carlo Tavecchio protagonista di frasi razziste sui giovani calciatori di colore. Nessuno diede peso a quest’episodio. Quel che conta, in Italia come altrove, sono gli accordi potere. E in Italia, a differenza di altri luoghi, non c’è una facciata da salvaguardare. Abbiamo ripetuto mille volte che il primo provvedimento di Tavecchio fu annacquare la norma sulla discriminazione territoriale. Fu votato da tutti i presidenti.
I casi Kessié Lukaku e Dalbert
Soltanto per rimanere agli ultimi episodi, altrimenti facciamo notte, e cioè Kessié Lukaku e Dalbert, la trama che ne è seguita è stata sempre la stessa. Nessuno allo stadio, degli uomini preposti, ha sentito i buu. È come se fosse stata una allucinazione collettiva. E tutto è finito in cavalleria. Andrebbero però archiviate dichiarazioni come quella di Gasperini, oppure il comunicato del Verona. Mentre è passato sotto silenzio quello di Zhang che di fatto si è allineato agli usi italiani e ha difeso il comunicato con cui la Curva Nord – scrivendo l’assoluta verità peraltro – spiegava a Lukaku che i buu da noi non sono considerati razzismo, sono un modo per infastidire l’avversario.
Oggi sul Paìs Fiona May ha definito deludente la sua esperienza in Federcalcio. Venne chiamata – come specchietto per le allodole, diciamo noi – per un progetto contro il razzismo. Queste le sue parole oggi: «Ho lasciato due anni fa anni perché non è cambiato nulla, nulla è stato deciso. Non era la loro priorità. È stata un’esperienza deludente».
Il nuovo mantra del calcio italiano è: “la responsabilità è individuale”. E oggi Repubblica ricorda che “l’unico stadio italiano in cui i responsabili di ululati sono stati individuati e colpiti da Daspo, il divieto di accedere alle manifestazioni sportive, è l’Olimpico di Roma (era il 2016), grazie a telecamere di sicurezza dotate di microfoni”.
Sono passati tre anni, molti altri impianti sono stati dotati di telecamere. Ma è inutile se manca quello che altri definirebbero il background culturale. Manca la presa di coscienza. Lo stadio in Italia è sempre stato considerato una sorta porto franco, una zona libera in cui di fatto le leggi del codice civile e del penale perdono la loro efficacia. Basta guardare anche il curriculum di alcuni capi ultrà che hanno avuto problemi con la giustizia. Probabilmente se avessero compiuto gli stessi reati lontano dal calcio, dalle curve, sarebbero finiti in galera per più tempo. Il calcio ammorbidisce, attenua. C’è più tolleranza. Al fondo, gli italiani si mostrano scettici verso tutto questo bla bla bla sul razzismo. Proprio non lo capiscono. Non è un caso se gli unici uomini di calcio che si mostrano stupiti e indignati per quel che accade negli stadi italiani sono persone che hanno lavorato all’estero: Ancelotti, Conte, Mancini. La speranza è che possano essere di più. Il timore, invece, è che molto presto possano andare via.