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Il metodo Ancelotti è l’opposto del metodo Burioni

Il leader calmo non “blasta” i critici, anche improvvisati, ma spiega, illustra, espone e, soprattutto, porta i risultati. Da squadra messianica per antonomasia ad apoteosi del collettivo

Il metodo Ancelotti è l’opposto del metodo Burioni

Non abbiamo il top player. James Rodriguez alla fine è rimasto al Real Madrid, Icardi ha preferito accasarsi a Parigi. Quest’anno non si è parlato nemmeno del ritorno di Cavani, mentre Benzema e Di Maria ce li eravamo giocati del tutto nel primo calciomercato dell’era Ancelotti. Abbiamo, però, una squadra forte, unita, duttile e intelligente. Una squadra per la quale il concetto di turnover è persino inappropriato, visto che le uniche pedine inamovibili sembrano essere Koulibaly e, parzialmente, il sempiterno Callejon.

Non esistono i titolarissimi, ma nemmeno i titolari

Per il resto, nessuno si sente titolare. Non può farlo Meret i cui concorrenti si chiamano Ospina e Karnezis (credo che nessuna squadra in Europa abbia tre portieri di tale qualità). Non lo può fare nessuno nel reparto difensivo, vista la presenza in rosa di tre terzini destri, due terzini sinistri e tre centrali (escluso il senegalese di cui abbiamo già detto). Di sicuro non possono sentirsi titolari i quattro centrocampisti (Elmas, Allan, Ruiz e Zielinski) e meno ancora gli attaccanti, che sono in 7 per quattro posti da assegnare ogni volta.

Che differenza con il Napoli di Maradona

Nei giorni in cui al cinema sta passando il film di Kapadia su Maradona, ci troviamo a confrontare quel fulgido e vincente passato con un presente diverso, per i risultati ovviamente (per ora), ma ancor di più per l’impostazione. Il Napoli di Maradona (ma anche quello di Savoldi, di Krol, di Sivori e Altafini e così ad andare indietro fino a quello di Jeppson) era pensato come un sistema solare, con una stella attorno al quale far ruotare tutti gli altri, sia in campo che mediaticamente. Era un’impostazione messianica e, non a caso, Diego veniva vissuto, incitato, osannato come qualcosa di soprannaturale, come un essere dai poteri infiniti e salvifici. Le immagini che Kapadia ha recuperato dagli anni ’80 e ’90 ci mostrano soprattutto il bisogno fisico che i tifosi avevano di toccarlo, abbracciarlo, carezzarlo, baciarlo addirittura. Come se attraverso il contatto fisico potessero trasferirsi un po’ di santità e di magia.

Diego fu tutto questo e anche di più, in una Napoli che non era attrezzata mentalmente e logisticamente per accoglierlo senza snaturarlo e opprimerlo. Quegli anni vengono vissuti ancora oggi come un miracolo, una sorta di sospensione della validità delle leggi della fisica che portarono una squadra naturalmente relegata alla media e bassa classifica a primeggiare, a vincere.

La costellazione di Ancelotti

In un ideale cambio di inquadratura, invece, se la macchina da presa puntasse sul Napoli di oggi, non troverebbe nessuno a parlare di miracolo. I più obiettivi parlano di gestione e programmazione, i più scettici di fortuna, ma tutti dovrebbero fare i conti con una squadra che veleggia da anni e anni nella parte altissima della classifica, che scala il ranking europeo e si permettere di giocare ad armi pari e talvolta persino di vincere con il gotha del calcio europeo. Ne sa qualcosa Klopp che al San Paolo è venuto 3 volte (una con il Borussia e due con il Liverpool) e non è riuscito a fare nemmeno un punto segnando la miseria di un gol. “In Italia per colpa del Napoli pensano che noi del Liverpool non sappiamo più giocare al calcio”, ha detto mentre ritirava il premio Fifa come miglior allenatore del mondo per il 2019.

Quella di oggi è una squadra che, per rimanere nella metafora astronomica, somiglia ad una costellazione vista dalla terra. Le stelle ci sono, ma il loro ruolo non è quello di illuminare le altre che, a loro volta, non ruotano. Il Napoli di Ancelotti, l’antidivo per eccellenza, è l’apoteosi del collettivo, dello sfruttamento sapiente e scientifico di tutte le risorse, a seconda dello stato di forma, dell’avversario che si ha davanti, del grado di concentrazione. Nessuno si sente escluso nel Napoli e nessuno si sente indispensabile.

Nelle prime 4 giornate di campionato gli azzurri hanno segnato 13 gol, più di 3 a partita, giocando per tre volte fuori casa, di cui una contro i campioni d’Italia. A segnarle sono stati già 8 giocatori diversi mentre sono 22 in tutto i giocatori già utilizzati in questo scorcio di stagione, Champions League compresa. Nessun miracolo, dicevamo, casomai il professionismo applicato al calcio. Nella bella intervista allo staff tecnico degli azzurri non può non notarsi quanto i risultati che stanno arrivando siano il frutto di studio e preparazione. È il metodo scientifico che si sostituisce all’improvvisazione ed al colpo di genio.

Non siamo pronti, forse

Dicevamo prima che Napoli non era pronta per l’arrivo di Maradona; men che meno appare, in larghissima parte, pronta all’avvento della programmazione. Forse sta qui il vero motivo della disaffezione che la città mostra nei confronti della squadra e della società. Immersi in una sorta di scetticismo all’incontrario, tifo e mass media non si fidano di qualcosa che non abbia l’aura del divino e del soprannaturale. Con le reazioni folli per i mancati arrivi di giocatori tutt’altro che indispensabili (se solo ripenso alla tempesta che scaturì dal mancato arrivo di Soriano…) ed il disperato inseguimento del Top Player a tutti i costi, una buona parte della tifoseria sembra dire, parafrasando un noto slogan immobiliare, “Noi vogliamo i sogni, non le solide realtà”. Chi invita a guardare i fatti e i risultati viene additato come servo e aziendalista, chi accetta di vestire i colori azzurri viene screditato (i pensionati Llorente e Ancelotti, gli scarti del Real Madrid Callejon e Albiol, il chiattone Benitez…) e addirittura insultato ancor prima di indossare la maglia azzurra (successe ad Inglese, ma non solo).

Il metodo Ancelotti

Ancelotti di questa diffidenza, probabilmente, non se ne fa una ragione, però l’ha capita benissimo. Ne sono la prova il continuo rimarcare l’importanza del pubblico e l’appello reiterato a venire allo stadio, nonché il lento, dolce, ma deciso abbandono del sarrismo, senza strattoni e proclami. Senza alcuna prova, mi spingo ad ipotizzare che la voce del Mister sia stata importante anche nel cambio di politica sugli abbonamenti e sul prezzo dei biglietti. Il leader calmo applica il contrario del “metodo Burioni“, non “blasta” i critici, anche improvvisati, ma spiega, illustra, espone e, soprattutto, porta i risultati. Chi scrive, da riformista convinto, non può che essere entusiasta della pazienza con cui Carletto spiega che il modulo con cui giocano gli azzurri non è quello di cui si parla sui giornali, ma sa benissimo che l’argomento migliore da opporre agli orfani della squadra messianica è un 2-0 rifilato ai campioni d’Europa in Champions League.

Una vittoria del Napoli collettivista e scientifico di Ancelotti spazzerebbe via tanti di quei luoghi comuni da meritare più film e documentari di quelli che hanno Maradona come protagonista (e sono tantissimi).

 

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