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A volte si muore perché capita, anche nel calcio

“Non sempre nel calcio si raccoglie ciò che si merita”. Il lavoro che sta portando avanti Ancelotti è non perdere l’equilibrio quando questo accade. Ben attento a non cadere nella de-responsabilizzazione

A volte si muore perché capita, anche nel calcio

È un tema scabroso da affrontare, in particolar modo dopo una sconfitta in casa, quello dell’aleatorietà in una gara di calcio ma, se da una parte è fondamentale non rimuovere le responsabilità degli individui – specie in una terra come la nostra che della deresponsabilizzazione ha fatto un modo di vivere – dall’altra è importante non far collassare la complessa discussione sulla dualità caso-volontà nel definitivo ed inutile concetto di “culo”.

Questo mi pare sia stato anche l’approccio tentato, a valle della partita contro il Cagliari, da Carlo Ancelotti: la stessa persona che, uscendo sconfitta dalla sfida di Torino dopo una rimonta clamorosa, aveva pragmaticamente confessato che un pareggio non lo avrebbe comunque reso felice, ha tentato di tenere il punto su un’idea non nuova ma fondante per uno sportivo come lui: “Non sempre nel calcio si raccoglie ciò che si merita”. La legittima eventualità che in una partita di pallone una squadra che non ha mai tirato nella porta avversaria guadagni una vittoria di misura all’ultimo minuto – ossia che sia del tutto plausibile fare un contropiede al novantesimo e depositare l’unica palla necessaria in rete – è parte del valore pedagogico del calcio. Per cui schiacciare costantemente la discussione, con mille letture dell’evento ex-post, su quanto i calciatori avrebbero ancora potuto fare ma non hanno fatto, non porterà alla lunga ad alcun valore aggiunto se non a generare un inutile senso di colpa in chi gioca – “Fa male essere giudicati così”.

Può essere un errore quello di considerare tutte le sconfitte di misura, in qualche modo inattese, figlie disperate della stessa madre. Se è vero infatti che la preparazione ad una partita, come in qualunque agone, consista nel programmare le proprie azioni nell’eventualità che le cose girino per il peggio, non va dimenticato che l’evento alla base delle nostre reazioni (il gol o la sua mancanza) è l’unico elemento oggettivamente misurabile ma anche l’unico al di fuori del nostro controllo. È importante rimanga chiaro, infatti, che nessuno di noi può decidere dove finirà la spizzata di testa, se alla destra o alla sinistra del palo. Il compito di un leader dunque sta nel plasmare una illusione nei propri uomini, del tutto soggettiva, una avventura psicologica, nella cosiddetta “trance agonistica”: la consapevolezza, autocostruita, che qualunque sia l’esito di quel tiro, le conseguenze non potranno che esserti favorevoli. Così, il “perdente” vedrà nel pallone che sfila di pochi millimetri a lato del palo il proprio massimo sforzo ineluttabilmente frustrato dalla storia, laddove il vincente vi percepirà il presagio che la vittoria è dannatamente vicina e il prossimo tentativo non potrà che condurre al trionfo. Alla base di questa trance illusoria e personale – o “mentalità”, come va di moda chiamarla oggi – c’è dunque un evento, misurabile e fuori controllo: il dove finisca la palla. La sua posizione ed il suo movimento non sono nelle disponibilità dell’attaccante, esattamente come non sono in quelle del portiere. L’evento è terzo. Per questo lo sport ha un inspiegabile fascino.

La razionalità nel calcio consiste nel riconoscere questo meccanismo e la terzietà dell’evento, senza finire triturati da quest’ultimo, separando il merito dal risultato, soppesando bene il primo mentre si accetta sempre come definitivo il secondo – una operazione dall’enorme valore educativo perché insegna quella che i greci chiamavano metriotes, il bilanciamento, l’echilibrio: «Cuore, sopporta; pena più atroce hai tollerato il giorno in cui il Ciclope furente divorò i tuoi valorosi compagni: e tu hai tollerato fino a che la mente accorta ti ha fatto uscire dall’antro dove pensavi già di morire» diceva Ulisse che, avendo perso molte partite per uno a zero al novantesimo, aveva imparato a sopportare ed attendere. Da un lato, è necessario, specie a Napoli, polverizzare qualunque alibi, pena la morte, come ricordava Ottavio Bianchi; dall’altro, schiacciare sempre tutto sulla responsabilità del singolo – i terzini troppo alti, il tiro troppo lento, la marcatura troppo larga – alla lunga non farà altro che generare depressione in chi gioca, portando a finali di stagione come quello dell’anno scorso.

Sono passati pochi giorni ed è passato in archivio che la scorsa domenica Lorenzo Insigne ha segnato un rigore al suo secondo tentativo. Un privilegio quanto mai raro. Il primo, fallito in modo plateale, è stato annullato per una irregolarità riscontrata dall’arbitro a seguito di una applicazione tanto inusuale quanto precisa del regolamento. Ciò non ha impedito al capitano del Napoli di ricevere ottimi voti in pagella, nel generale disinteresse circa la fatalità della sua prestazione personale, la medesima cui è ancora generalmente legata la squadra azzurra, fatta di uomini che non fanno affidamento sulle prime intenzioni, ma quasi sempre sulle seconde. Il Napoli è ancora non ferale, fa ancora fatica ad ammazzare la preda al primo colpo. Ne richiede spesso un secondo. L’animo di questa squadra non è tale da annientare le avversità o poter trionfare senza un pizzico di buona sorte. Contro il Liverpool ha consegnato alla storia una partita memorabile, grazie a quel po’ di fortuna che il fato le ha concesso. La domanda è: è questo un peccato mortale?

Io non credo. Penso, piuttosto, che sia poco discusso il problema storico cui ci troviamo di fronte, nel calcio nazionale, ovvero il livello costantemente elevatissimo della prima della classe. Se la Juventus dispone di forze economiche e societarie per cui vincere oltre il novanta percento delle partite non sarà mai un problema, scovare la propria metriotes risulterà sempre proibitivo per qualunque altra squadra. I bianconeri viaggiano oggi a quota tredici punti, con tre partite vinte grazie a tre autogol decisivi – gli avversari hanno segnato nella propria porta più di quanto abbia fatto, sinora, Cristiano Ronaldo. Quando il clima storico è tale per cui una enormità come questa passa sostanzialmente sotto silenzio, coperta da un rullo compressore che procede da otto anni ad un numero incalcolabile di vittorie stagionali, cercare il valore del caso in una partita diventa come cercare di colpire un moscerino con una palla di cannone da una tonnellata. In Europa, dove questi rapporti di forza sono spesso diversi, è la stessa Juventus ad appellarsi al peso degli episodi.

Il senso, dunque, è cercare di essere equilibrati. Il Napoli è un’ottima squadra, a tratti grande, che lotta contro un nemico che colpisce da lontano con il suo avvilente tabellino di marcia. Rimanere realisti è certamente un comandamento. Ma non, a mio avviso, al costo di eliminare profondità alla nostra prospettiva, diventando come quei medici che fanno a gara a chi è il più  ultra positivista, segnando per ogni decesso: “Morte causata da arresto cardiaco” come se ci fosse qualche defunto col cuore che batte. A volte si muore perché capita. Altre volte si vince per gli stessi motivi. Alla lunga vince chi riesce a non essere schiavo di queste bugie, facendo paziente affidamento sulla propria mente accorta.

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