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Vita di James. Il bambino che amava Totti

L’infanzia del numero 10 che Ancelotti desidera per il Napoli. La nascita in un anno chiave per la Colombia. Le traversie familiari. Il calcio come strumento di riscatto. E il romanista come primo idolo.

Vita di James. Il bambino che amava Totti

Meglio il pallone che García Márquez

La prima cosa che si racconta di James Rodríguez è il suo terrore per le 432 pagine del capolavoro di Gabriel García Márquez, Cent’anni di solitudine. Quando a scuola gliene assegnarono la lettura, il suo padrigno, Juan Carlos Restrepo, un ingegnere, corse in libreria a prenderne una copia e gliela mise fra le mani. James domandò se dovesse sorbirselo proprio tutto, con gli allenamenti che invece lo aspettavano. L’ingegnere annuì. Tutto. Lo insospettiva solo il fatto che dalla stanza di James provenissero rumori più simili al sottofondo di una playstation che allo sfoglio di qualche centinaio di pagine.

Lo racconta Nelson Fredy Padilla nella prima pagina di “James su vida. Historia de un héreo y de un país”, la biografia del calciatore colombiano uscita quattro anni fa sul mercato latinoamericano. In epigrafe una frase dello scrittore portoghese José Saramago e una dello statunitense Gay Telese. La prima dice: “La sconfitta ha qualcosa di positivo: non è definitiva. La vittoria invece ha qualcosa di negativo: non è definitiva”. La seconda dice: “Ho un’attrazione permanente per gli sport come simbolo della necessità umana di successo”. Secondo Padilla, in queste due frasi deve esserci qualcosa che bene ci racconta James.

I figli ereditano le follie dei padri

James in ogni caso leggeva, stupito dal fatto che il colonnello Buendía si chiamasse Aureliano come il suo nonno paterno, il padre del suo papà biologico, l’ex calciatore Wilson James Rodríguez, e che tra i nomi femminili del romanzo sbucasse quello di Pilar, come sue madre. Molti anni dopo – per dirla alla Márquez – di fronte alla notizia della morte del premio Nobel per la letteratura, James avrebbe scritto su twitter: “Molto triste per la scomparsa di Gabo. La sua opera ha reso grande il nome della Colombia”.

Ma non è stata una vita da realismo magico, quella di James, scrive Padilla. La chiama vita da realismo sucio. Realismo sporco. L’anno di nascita di James, il 1991, è quello in cui la Colombia si sta dando una Costituzione politica allo scopo di rifondare il paese sconfiggendo la corruzione e le diseguaglianze. È l’anno in cui il narcotrafficante Pablo Escobar si consegna alle autorità nel campo di calcio di Envigado e quello in cui i guerriglieri delle Farc trattavano con il governo la pace e la consegna delle armi. Solo un anno prima, la nazionale colombiana di calcio era ai Mondiali, scrive Padilla, utilizzata come cortina di fumo per tutti i mali della Colombia. In quel 1991 di speranza, Wilson portava con sé il suo bimbo al campo d’allenamento, vestito di rossonero, offrendolo all’obiettivo del fotografo del Cùcuta: Henry Jaramillo. Wilson era uno dei giocatori principali della squadra. Uno specialista nei gol da lontano. “I figli ereditano le follie dei padri”, questo lo dice Gabo.

La leggenda della chiaroveggenza

Ma Wilson in casa aveva una debolezza. Gli piaceva la birra. Tanta. Troppa. Pilar se ne stufò. Prese James con sé e tornò al suo paese, Ibagué, trovando lavoro come segretaria in un’impresa di trasporti. Dove incontrò l’ingegnere Restrepo. Quello che compra il libro. James aveva tre anni e il padrigno si accorse che trattava il pallone meglio di tutti gli altri bimbi dei dintorni. “Portiamolo a una scuola calcio” disse a Pilar, che al solo sentir pronunciare la parola calcio si irrigidiva per via dei cattivi ricordi. L’iscrizione fu rinviata perché all’ingegnere proposero un lavoro a Bogotà. Ecco perché la prima squadra del piccolo James fu lo Sporting Cristal Colombia, agli ordini di un allenatore di nome Rafael. Gli diedero una maglia bianca verde e rossa e lo mandarono al Mundialito de Fùtbol organizzato dalla Liga di Bogotà.

Mamma Pilar non era felicissima. Scoprì che erano i 2.600 metri a farle male. Così tornò con James a Ibagué, l’ingegnere tornava nei fine settimana. Per far tirare calci a James, aveva individuato il Club Campestre, il più vicino alla scuola elementare e quello con i migliori campi della zona. “Possono iscriversi solo i figli dei soci” si sentì rispondere. Ma costava. Gli consigliarono di ripiegare sulla più popolare Academia Tolimense, la retta era di 25mila pesos. James studiava alla scuola Juan Lozano, e in quel periodo sentì per la prima volta il nome di un calciatore straniero, un italiano, Francesco Totti. Era il 1998 e racconta Padilla che il ragazzino firmò il cartellino della scuola calcio come James David. È qui che nasce la leggenda del ragazzino in grado di prevedere il futuro. Secondo uno dei migliori amici di James, Felipe Pipe Gómez, aveva capacità divinatorie. Una specie di chiaroveggenza successivamente individuata come una superiore abilità nella visione periferica. Quella che allarga lo spettro dello sguardo e ti consente di vedere cosa succede negli spazi fuori dalla portata degli altri. Se il tuo mestiere è servire assist, una cosa del genere può far comodo.

Il vuoto lasciato dal padre

Felipe Pipe Gómez ricorda a Padilla i pomeriggi passati a giocare con James, che nel frattempo metteva la maglia della Roma con il numero 10. Non gli piaceva stare da solo. Cercava la compagnia degli amici e quella di Simón, il suo cane, un collie. “Il calcio e gli amici gli riempivano un vuoto”. Il padre. L’ingegnere lo confortava dicendogli che ne aveva tre: quello biologico, quello putativo e Dio. Il piccolo James aveva paura di andare in bicicletta. Gli amici guidavano a una mano. Ne era terrorizzato. Era caduto. Temeva che la sua ambizione di diventare un calciatore professionista potesse essere compromessa. Era un predestinato. Diventò così evidente che l’ingegnere lasciò il lavoro per dedicarsi a sostenerne l’ascesa. James è cresciuto portandosi sulle spalle il peso di non deludere la famiglia. Contattarono un vecchio allenatore dell’América Cali, con un passato nelle divisioni inferiori, chiedendogli di far giocare James con i più grandi. Divenne parte della famiglia un ragazzo con il quale esisteva in campo un’intesa speciale, César Nuñez andò a vivere con James. Lo chiamavano Il Capellone. Hanno dormito nella stessa stanza per due anni. Come fratelli. César racconta che alla Play James prendeva il Real Madrid e lui il Chelsea. Al tempo in cui uscì il libro di Padilla, César giocava nella serie B colombiana, nell’Expreso Rojo.

L’amore di James per il calcio, questo viene sottolineato più volte, non sarebbe bastato se la sua famiglia non avesse avuto un’ossessione pari alla sua. Quando a undici anni si fermava a calciare, a calciare, a calciare anche dopo l’allenamento, chiesero a James: “Perché ti eserciti tanto se sei già il più bravo di tutti i tuoi coetanei?”. La sua risposta fu: “Perché non so tirare ancora bene come Totti”.  Fra il 2001 e il 2002 James diventò un super tifoso del Real. Il tiro con le tre dita di Roberto Carlos diventò un riferimento, così come la volée di Zidane contro il Bayer Leverkusen. Guardava e imitava: “Voglio essere un numero 10”. I palloni della sua squadra erano molto vecchi. Si racconta che James non ci facesse poi troppo caso. Ancora giocava in strada con le lattine vuote delle bibite.

(fine prima parte – continua)

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