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Alla domanda esistenziale di Sarri sulla fedeltà, rispondiamo con Massimo Troisi

“Che fai: resti fedele a una moglie da cui hai divorziato?”. “Mi piacerebbe essere almeno l’amante di una delle mogli dei giocatori del Napoli”

Alla domanda esistenziale di Sarri sulla fedeltà, rispondiamo con Massimo Troisi

Lo scartiloffio

Mentre seguiamo Sarri nel suo Getsemani professionale consegnarci le sue drammatiche domande  “Che fai: resti fedele a una moglie da cui hai divorziato?” – ci chiediamo, così per gioco, se esista un una terza via, che da una parte ci sottragga alla harmonyzzazione dei sentimenti tondi come confetti rosa in cui Napoli galleggia e dall’altra eviti di renderci banalissimi cinici di circostanza che ricordano i paninari degli anni Ottanta. Tutto sommato, infatti, ritengo che una delle cose che abbia tentato di fare negli anni il Napolista sia stato proprio chiamare gli appassionati di questo sport alla necessaria serietà dei sentimenti, andando quasi sempre contro la corrente generale di quanti vogliono convincerci che basta credere in qualcosa per non smarrire il sognatore che è in noi. Ebbene, è falso e chi ve lo dice tenta di vendervi il famoso mattone al posto dello stereo: il finto duro d’animo che sostiene che il calcio abbia progressivamente perso ogni valore sentimentale e il dolce sognatore con gli occhi a cuoricino che cerca in esso facili metafore della vita sono due facce della stessa (inutile) medaglia.

Esiste una verità non negoziabile, e magari è giunto il tempo di rifletterci, ossia che per evitare di consegnare il pallone agli speculatori di ogni latitudine ed ogni estrazione – sportiva, politica, intellettuale – i sentimenti vanno educati. È solo così che possiamo difendere il nostro diritto a soffrire e gioire in uno stadio senza rimanere dei poveri fessi.

Tanto per cominciare, il gioco del calcio ci insegna che non tutto è un gioco cui bastano le regole del fallo laterale e dell’offside. Per esempio, la rivoluzione bolscevica sarebbe il caso che qualcuno la studiasse prima di farne una allegoria ad uso e consumo di chi predica il sessanta percento di possesso palla come comandamento esistenziale. Prima di tutto perché le rivoluzioni, oltre a essere cose di cui i miliardari oligarchi russi non sono esattamente epigoni, sono roba in cui la gente di solito si fa molto male.

Per quanto anche la Treccani abbia deciso, ad un certo punto, di iscriversi al gruppo delle menadi sarriane coniandone il neologismo, cosa sia il sarrismo e perché esso prenda vita da un “elettore ideale di una sinistra che non c’è più” è stato impossibile spiegarlo (senza esser presi per sciroccati) ai colleghi europei, specie a quelli che a causa di quella rivoluzione, anni fa, non potevano attraversare un confine o valicare un muro, o semplicemente venire a conoscenza del fatto che una centrale nucleare era appena esplosa a poche centinaia di chilometri da casa propria (la HBO, con la sua ultima serie dal successo mondiale, potrebbe dare una buona idea di quanto fosse folkloristico il “Soviet”).

Insomma, scegliersi un eroe è un enorme atto di responsabilità che non va preso alla leggera. Bisogna guardare tra le righe e scovare i legami tra circostanze ed esistenze che la vita non mostra ad occhio nudo. Il calcio non fa le rivoluzioni, come non le ha fatte neanche il Rock’n’Roll, ma proprio come quest’ultimo esso ci ha tenuto in vita con racconti straordinari, come quella di Cherif Karamoko, una odissea gigante che meriterebbe ben altra attenzione, la nostra attenzione se, appunto, ci educassimo all’ascolto piuttosto che alla nostra patologica costante autoreferenzialità. A proposito della quale ricordo un aneddoto: il giorno dopo l’abbattimento delle torri dell’undici settembre, il portiere del palazzo dove abitavano i miei genitori mi disse che era preoccupato che il prossimo obiettivo dei terroristi potesse essere l’allora Jolly Hotel. Negli anni questa vicenda mi ha fatto capire da quale problema culturale noi siamo irrimediabilmente affetti: la certezza di essere necessari nell’universo.

Per cui alla domanda esistenziale di Sarri potremmo rispondere, finalmente, con la battuta fulminante di uno degli ultimi che, dalle nostre parti, visse con la leggerezza della propria non indispensabilità: “Mi piacerebbe essere almeno l’amante di una delle mogli dei giocatori del Napoli”. Si chiamava Massimo Troisi, se n’è andato senza disturbo 25 anni fa.

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