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L’effetto precarietà del Napoli sui media coinvolge persino Ancelotti (ridotto a Colantuono)

La squadra dei 91 punti è diventata una squadra di marinai. Il club in Europa da nove anni, un gioiellino imprenditoriale, sempre descritto come se fosse frutto di un miracolo

L’effetto precarietà del Napoli sui media coinvolge persino Ancelotti (ridotto a Colantuono)

L’eterna retorica dell’approssimazione

La rappresentazione di Napoli dev’essere sempre contraddistinta da un senso di precarietà, altrimenti non sarebbe Napoli. Almeno per chi osserva dall’esterno, in particolare modo dal Settentrione. Ma, va detto, anche per una buona fetta di indigeni che ama la retorica del miracolo.

Ci siamo già soffermati sull’articolo della Gazzetta che pure, all’arrivo di Ancelotti a Napoli, dedicò ribalta e ampio spazio a uno degli allenatori più allenatori più titolati del mondo, certamente il più titolato in Serie A.

Invece, pare che non basti nemmeno Ancelotti. Una squadra – il Napoli – che arriva seconda a 91 punti diventa una squadra composta da marinai. L’immagine della modestia, dell’umiltà, quasi della provinciale che solo in virtù di chissà quale spirito benigno è riuscita a contendere fino all’ultimo lo scudetto alla Juventus. Ormai ripetiamo sempre le stesse cose.

Spariscono i numeri straordinari del club

Il Napoli è al nono anno consecutivo di Europa: parteciperà per la quinta volta alla Champions con un ranking che lo piazza nella seconda fascia. Negli ultimi otto anni i peggiori piazzamenti in campionato sono stati due quinti posti. Ha brillantemente risolto una situazione di stallo con il precedente allenatore – Maurizio Sarri – che invece continua a bloccare il Chelsea. E lo ha fatto ingaggiando Carlo Ancelotti uno che ha vinto tre Champions League, quattro campionati in quattro Paesi diversi e che è tornato in Italia dopo nove anni di esilio dorato. E quale piazza ha scelto? Milano? Torino? Roma? No, Napoli.

Un gioiellino imprenditoriale

Eppure non basta. Napoli resta sempre precaria, altrimenti non ha senso nel racconto. L’effetto distorsivo del Napoli sui media ha il potere di trasformare di Ancelotti in una sorta di Colantuono (con tutto il rispetto per Colantuono). L’Italia – nonché una buona fetta di tifosi napoletani cronicamente affetti da autolesionismo – proprio non riesce a concepire e quindi a descrivere uno dei rarissimi esempi di programmazione del calcio italiano. Proprio mentre assistiamo allo sfacelo del Milan e alla crisi giudiziaria che rischia di penalizzare  la Roma del futuro, il Napoli veleggia serenamente, con i conti in ordine e una capacità di appeal (nonché economica) in grado di sedurre uno come Ancelotti. Ma non abbastanza, evidentemente, per spezzare decenni (molti decenni) di luoghi comuni su Napoli.

“Ha vinto solo con i campioni”

Persino il palmares di Ancelotti viene distorto. Ha vinto sì, ma lo ha fatto con campionissimi. In maniera quasi offensiva. Per un allenatore che durante il Mondiale del 1994 venne spedito da Arrigo Sacchi a compilare le statistiche della partita: le guardava con un assistente al fianco che annotava tutte le azioni: “Baggio scarica su Donadoni; dribbling; palla persa”. Uno che ha attraversato il calcio da Liedholm a Sacchi, fino a Cristiano Ronaldo. Uno che ha riportato la Champions al Real Madrid dopo dodici anni. Che ha cominciato il traghettamento del Psg in una nuova dimensione calcistica. E potremmo continuare.

Se fosse finito al Milan, all’Inter o alla Juventus, avremmo assistito a servizi su servizi sul ritorno di Ancelotti in Italia, sul grande colpo di aver riportato in patria un italiano vincente. Poiché è arrivato a Napoli, viene trascinato anche lui nella retorica della precarietà. Non c’è scampo. Si rassegni.

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