Uno spettacolo di donne per le donne. «Noi donne ci occupiamo sempre degli altri e poco di noi stesse, a qualsiasi età. Mi piace dare voce a chi pensa di non avere nulla da dire»
«Diciamo spesso che i gruppi femminili non funzionano, invece questo sì, perché c’è la possibilità di dare spazio a tutte. C’è chi ha un temperamento più disponibile e chi invece non parla mai. Ma tutte possono esprimersi». Parla Marina Rippa, regista e curatrice del progetto ‘La scena delle donne’, che, nato a Forcella nel 2007, esplora l’universo femminile attraverso le arti sceniche.
Questo percorso è cominciato più di 10 anni fa, come è nato il progetto?
«Quando Nino D’Angelo è arrivato al Teatro Trianon mi ha chiesto una mano per dare al quartiere delle nuove attività. Io conoscevo bene l’istituto comprensivo Adelaide Ristori e gli suggerii di lavorare con gli adolescenti o con le donne perché in quel quartiere mancano del tutto le attività sociali. Così facemmo il primo laboratorio. Si chiamava ‘Donne con la folla nel cuore’, titolo che abbiamo ripreso a distanza di 10 anni. All’inizio si avvicinarono alcune mie ex alunne della scuola e le loro mamme, forse perché già mi conoscevano. Poi in breve tempo insieme a loro sono arrivate altre donne, un po’ per il passaparola e un po’ perché vedevano il lavoro svolto. Nel corso degli anni ne abbiamo coinvolte almeno 400, alcune saltuarie o a singhiozzo, poi da un po’ di anni abbiamo un nucleo fisso. La partecipazione ai nostri laboratori è sempre gratuita».
Oggi, a distanza di dieci anni e molti laboratori e progetti portati a termine, Marina ha ripreso il nome del primo laboratorio insieme a Monica Costigliola e stasera porta in scena uno spettacolo dal titolo “Donne con la folla nel cuore”. in un’unica data, alle 20, nello spazio comunale Piazza Forcella, in via Vicaria Vecchia. L’Assessorato alla Cultura del Comune di Napoli, che da sempre sostiene il progetto, ha assicurato che ci saranno altre repliche in futuro. Le donne impegnate nel laboratorio sono 21 che vanno dai 30 ai 65 anni: la maggior parte da Forcella, ma due vengono da Poggioreale ed una, che si è dovuta trasferire a Casoria, ma non molla.
Di che tratta lo spettacolo?
«Del portato che ciascuna donna ha nel cuore. Abbiamo un canovaccio, ma tutto nasce dai racconti delle donne. Quest’anno ciascuna ha indagato e approfondito il momento in cui si è staccata dalla famiglia ed da adulta ha scritto una lettera a se stessa bambina. Vanno in scena le loro storie, il loro vissuto, proprio per questo non abbiamo bisogno di scenografia o costumi, portano in scene se stesse e assicuro che è straripante. Se una non c’è, nessuna la rimpiazza, perché il suo racconto e la cucitura dello spettacolo cambiano».
Sono sempre tutte pronte ad aprirsi e a parlare di se’?
«Non sempre. Proprio per questo quando abbiamo cominciato ho dato loro una cassetta di legno con una luce dentro. Ho detto: apritela, dentro c’è la folla, ditemi cosa vedete. Stappare il contenitore della folla ha tirato fuori tante cose che si credevano dimenticate, ha toccato corde nascoste. All’inizio, molte hanno parlato di chi non c’era più. Poi sono venuti fuori luoghi, persone e musiche che affollano il cuore».
Come reagiscono le donne a questi stimoli?
«Quando chiediamo loro di raccontarci qualcosa, partono racconti leggeri, poi basta che una si apra e le altre le vanno tutte dietro. Esiste solo l’imbarazzo di iniziare. Ciascuna ha il suo tempo. Ce ne è una che quest’anno non ha scritto la lettera a se’, non ha voluto. Non esiste una forzatura: noi facciamo un lavoro di composizione del personale per cui ciascuna fa uscire ciò che si stente».
Avete portato il progetto anche fuori Napoli, vero?
«Sì, nel 2015 lo abbiamo portato fino a Lucca e Taranto e a Roma. Ed anche quest’anno siamo già state selezionate per le Pompeiane e poi per una rassegna in Puglia»
.Che importanza ha questo laboratorio?
«Parlarne è sempre molto difficile perché sembra autoreferenziale, invece è un lavoro importante per tutti. Bisogna partecipare, e non assistere, per riusciere a entrare veramente nello spirito del progetto. Nonostante le sue complessità, riesce a darmi tantissimo. Ci sono mogli che non possono spegnere il telefono perché hanno genitori malati o figli a cui badare. Quello che colpisce è che persone che non pensano di avere tempo, quando scoprono che facendo un lavoro su di te affronti meglio le altre cose della vita, difficilmente rinunciano».
Com’è lavorare con le donne?
«Per me è sempre stata una specie di malattia. Dal ‘94 al ‘99 ho lavorato in una scuola superiore di Monte di Procida frequentata solo da ragazze e mi è nata la passione di lavorare al femminile. Poi dal ’99 al 2006 abbiamo fatto un laboratorio di teatro con delle donne anziane. La cosa che mi colpisce e mi motiva di più è che noi donne ci occupiamo sempre degli altri e poco di noi stesse, a qualsiasi età. Mi piace dare voce a chi pensa di non avere nulla da dire. Poi quando senti questi brevi racconti che fanno, c’è un rispecchiamento da parte di chi partecipa perché sono talmente potenti… Ti senti coinvolta. Quando sono in scena sono imbattibili, potentissime».
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Che tecniche utilizzate per elaborare lo spettacolo?
«Si parte da un tema, poi si va avanti con le improvvisazioni e si capisce dove possiamo andare. Lavoriamo molto a partire dal movimento, con il tocco, il contatto. Lavoriamo con pochissime cose, facciamo un teatro che evoca. Abbiamo uno sgabello e un fondale bianco con dei bastoni della memoria. Pensando anche che dovendo andare fuori la comodità è avere poche cose. I costumi sono semplici perché sono talmente tanto loro che non c’è bisogno di altro. È un lavoro di narrazione di se attraverso il movimento e poche frasi».