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Mino Raiola, l’apolide che se ne frega della puzza della strada

È quanto di più postmoderno il sud Italia abbia partorito negli ultimi anni. Il mondo per bene lo chiama mercenario, lui se ne frega

Mino Raiola, l’apolide che se ne frega della puzza della strada

Tsipras avrebbe dovuto affidarsi a lui

In un mondo ideale, Tsipras avrebbe scelto Mino Raiola al posto del più evanescente Varoufakis per andare a trattare la rinegoziazione del debito greco con Wolfgang Schäuble in casa sua, a Berlino. Si sarebbe forse presentato indossando gli stessi sandali e bermuda che leggenda vuole egli abbia usato per contrattare il passaggio di Ibra alla Juve con Moggi – il quale, sempre leggenda narra, chiestogli conto del dress code non opportuno in casa bianconera, ottenne solo un invito spiccio a concentrarsi sulle cose serie e non su tali inutili frivolezze.

Per molti versi, Mino Raiola va considerato una autentica eccellenza, oltre a un modello di sviluppo sostenibile. In America lo vedremmo tenere seminari nelle università. Una vita professionale totalmente parametrizzata sui risultati, senza scappatoie di comodo – risultati, si faccia attenzione, mai completamente collimanti con i semplici e sonanti denari. Raiola serve e plasma soprattutto le ambizioni, come quando rispose al giornalista che Ibra non aveva certo bisogno di soldi, ma di sfide da vincere.

Un professionista che ha creato un indotto emotivo

Ed in questo suo saltare a pie’ pari l’attualità, la meritocrazia, il sistema che filtra i talenti, le trafile burocratiche, egli è quanto di più postmoderno il sud Italia abbia partorito negli ultimi anni, specie perché non ha mai agito solo come un altro della schiera dei parvenu goffamente arrivisti, ma come un professionista che ha creato un indotto emotivo, un intreccio di storie, una propria epica personale che ruota attorno al concetto incomprimibile della vittoria, ma genera universi quasi letterari attorno a sé – Nedved, Pogba, Balotelli, Matuidi non sono una gang di teste calde, aderiscono piuttosto ad un patto di profonda lealtà con Raiola al punto da considerarsi una famiglia nella quale a vincolare non sia il sangue ma la scelta di provare sempre e soltanto a superare una serie di ostacoli personali e collettivi.

La puzza della strada

In molti hanno provato a fargli notare la sua puzza della strada, come Sergio Leone fece dire al suo Noodles. Lasciando poco alle sfumature, gli hanno rinfacciato il suo italiano imperfetto – cosa certamente vera, ma nella quale egli non mostra la classica insicurezza da tipico complesso di inferiorità, quella che porta a smorzare le finali per il timore di essere redarguito. Raiola le finali le inventa, con un gesto istantaneo, di totale noncuranza per l’interlocutore. È più vivo del linguaggio, o meno morto delle parole, le frasi sembrano invecchiare non appena gli escono di bocca, sfida che gli risulta facilitata dal suo rapporto con la propria terra d’origine, Nocera Inferiore, la Campania, il sud, nomi sui quali egli non ha mai aperto nessuna apologia più o meno moralisteggiante, nessuna imbarazzante difesa d’ufficio.

Per Raiola i luoghi e le loro dinamiche locali non suscitano alcun interesse. Egli sa investire solo sulle persone, mostrando in questo una attitudine per il futuro davvero travolgente. Gli fanno schifo gli stadi italiani, lo stato diroccato del nostro calcio, gli hotel senza wifi dove continua a tenersi il calciomercato, e può permetterselo perché parla cinque lingue fino al punto che una sua, chiara, di lingua, neppure ce l’ha più.

È naturale che in Italia non sia amato

È quasi naturale che, dunque, in Italia non sia troppo amato. Mino Raiola è gioco forza un apolide che fa da porto per gli apolidi – quelli che il mondo per bene chiama “mercenari” credendo di averne così disprezzo. O, peggio ancora, credendo ci siano davvero valori inestimabili, oltre la legittima paura, negli esseri stanziali. È lo stesso mondo per bene che confeziona gli striscioni di profonda condanna morale indirizzati a Donnarumma, passando sotto silenzio realtà che si fa più fatica a discutere senza rimanerne coinvolti, come i calcinacci di una squadra storica come il Milan, caduti sotto il peso del cieco rinnegare la realtà. Il procuratore lo aveva preventivato ma, anche all’epoca, gli avevano dato del cialtrone.

Ha costruito il suo impero, il nostro Raiola, sul contatto umano. Sulle parole da saper dire ai propri assistiti. Sul suo contrattare, certamente, e forse anche sulla sua mancanza di scrupoli che non sono altro che utili scudi per rimanere conformisti e trovarsi una scusa per non fare un passo. Il mondo di Raiola ha rispettato la sua origine, concreta e tangibile come il cibo – come quando disse a Pierpaolo Marino che per Van Nistelrooy aveva un prezzo “gastronomico”, con una invenzione verbale straordinaria.

Se il sud si sveglia, un giorno, può fargli una telefonata. Mino Raiola non cerca riscatti, solo vittorie. A fare i mercanti nel tempio, a volte, ci vuole più coraggio che a autodefinirsi discepoli.

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