La storia della Nazionale italiana ha sempre camminato sul filo sottile tra epica e tragedia, ben prima di Ventura. Che ha perso e deve dimettersi, ma è stato anche sfortunato.
Ok, siamo tutti arrabbiati. Ok, Ventura ha le sue colpe e avrebbe fatto bene a dimettersi subito.
Ma forse dovremmo provare ad allargare un po’ la visuale: solo analizzare il contesto e interpretare i fatti in prospettiva storica ci può aiutare a giudicarli in modo equilibrato, senza giudizi affrettati e gogne mediatiche.
Redde rationem
E invece – come sempre accade in questi casi – al fischio finale dell’inguardabile arbitro spagnolo Lahoz – si è scatenata contro Ventura e Tavecchio la cagnara di opinionisti, tifosi e – soprattutto – addetti ai lavori che non hanno perso l’occasione per togliersi i proverbiali sassolini e regolare vecchi conti politici e tecnici.
Inutile ripeterlo: è talmente evidente che diventa superfluo sottolineare quanto questo risultato sia catastrofico per il calcio italiano (e non solo) e quanto l’allenatore ci abbia messo del suo per arrivare a questa situazione. Siamo tutti d’accordo. Ci mancherebbe.
Vergogna mai provata (per un pelo)
Meno d’accordo, invece, con chi – parlando di vergogna mai provata – guarda al presente (e al passato recente) come se tutto fosse da buttare, ricordando le passate gestioni come se tutto fosse stato sempre florido, dimenticando due cose fondamentali.
La prima: alla fine dei conti, l’Italia non va al Mondiale perché punita da un autogol, da un palo e da molta sfortuna (e per decenza non affrontiamo il discorso arbitri). Ma l’essenza dello sport è questa: conta il risultato. Bisogna esserne consapevoli e saperlo accettare. Magari evitando però di trasformare tutto in bello ed eroico se si vince e tutto in negativo e vigliacco se si perde.
Il contesto e la sfortuna
E ricordando magari il contesto in cui è maturata la mancata qualificazione. Che saremmo finiti ai playoff si sapeva: la Spagna era troppo forte per noi, sia nello scontro diretto sia (soprattutto) in un girone all’italiana.
E se abbiamo pescato la Spagna la colpa non è certo di Ventura, che ha accettato la sfida ben sapendo sarebbe stata difficile, dopo che Conte aveva deciso di andar via. Alla fine, Ventura ha sbagliato solo i playoff. Ma se fosse andato dentro quel tiro di Florenzi – per dire – sarebbero cambiati tutti i giudizi: l’arrembaggio azzurro si sarebbe trasformato da “sconclusionato” in “epico” e le scelte di Ventura da “confuse” sarebbero diventate “coraggiose”, così come sarebbe mutata l’interpretazione sulla scenata di De Rossi, sull’ammutinamento di parte dello spogliatoio, sul lavoro del presidente federale. E così via.
I precedenti
La seconda cosa da evidenziare, e che invece quasi nessuno sta ricordando in queste ore, è che spesso la nazionale si è trovata sull’orlo del baratro, del dramma sportivo, della catastrofe (giusto per usare qualcuno dei termini usati in queste ore) e ne è venuta fuori per il rotto della cuffia, talvolta per una giocata di un singolo, talaltra per un colpo di fortuna o per fortunate coincidenze su altri campi.
Senza voler andare troppo lontano, e rimanendo solo nell’ambito delle qualificazioni ai tornei, ricordiamo che dal Mundial 82 per due volte non ci siamo qualificati agli Europei e per due volte siamo andati ai Mondiali di diritto: una volta da detentori del titolo (solo nel 1986: la regola è stata eliminata e nel biennio 2008-2010 abbiamo rifatto le qualificazioni pur avendo vinto nel 2006) e un’altra perché paese ospitante.
Dopo il trionfo spagnolo, abbiamo saltato 2 edizioni degli Europei (1984 e 1992) in 10 anni. Ma erano Europei – si è sempre detto – e con la manifestazione continentale non siamo mai andati tanto d’accordo.
Il culo di Sacchi
Il guaio è che pure nelle prime qualificazioni mondiali dopo la vittoria Mundial (per USA 94) ce la siamo vista brutta. Sacchi subentrò a Vicini a furor di popolo mentre erano ancora in corso le qualificazioni agli Europei: la situazione era compromessa – è vero – ma il profeta di Fusignano, accolto come un messia, mise insieme due miseri pareggi nelle prime due partite (contro Urss e Norvegia). Si diede la colpa a Vicini, che per questo aveva perso il posto, dopo un Mondiale esaltante, in favore del tecnico romagnolo che aveva portato il Milan sul tetto d’Europa.
Tutta sua – di Sacchi – fu invece la ‘cavalcata’ nelle qualificazioni ai Mondiali americani: dall’esordio grottesco contro la Svizzera (2-2 casalingo grazie a due jolly nei minuti finali, dopo essere andati sotto per 2-0) fino alla sfida decisiva, anche quella volta a Milano, contro il Portogallo. Perdendo saremmo stati eliminati: addirittura saremmo finiti terzi nel girone, dietro Svizzera e, appunto, i lusitani. Ma Sacchi e la sua proverbiale fortuna la spuntarono ancora grazie a un gol di Dino Baggio a 7 minuti dalla fine: gol in fuorigioco di 3 metri, come dimostrano chiaramente i filmati dell’epoca.
Insomma, il Mondiale che tutti ricordano per il rigore sbagliato da Roberto Baggio cominciò – 8 mesi prima – con un gol in fuorigioco. Altrimenti già allora si sarebbe parlato di catastrofe: il profeta del calcio moderno, con in squadra un pallone d’oro e giocatori di valore assoluto come Baresi e Maldini, in un calcio non ancora del tutto drogato dall’invadenza degli stranieri, buttato fuori da due squadre modestissime come Svizzera e Portogallo. Non certo la Spagna di oggi. Così, per dirne una. Ma l’esempio non è isolato.
Lo spareggio di Napoli
Appena quattro anni dopo, ci capitò un girone un po’ più tosto, con l’Inghilterra (che comunque non valeva la Spagna di oggi) come antagonista e 3 comprimarie. Il gol di Zola a Wembley – proprio all’esordio di Cesare Maldini – sembrava aver spianato la strada, ma tre pareggi per 0-0 (contro le corazzate Polonia e Georgia e all’ultima contro l’Inghilterra) ci costrinsero ai playoff, proprio come quest’anno. Era l’autunno del ’97 e Maldini padre giocò i due spareggi contro la Russia esattamente come Ventura ha fatto contro la Svezia: modulo abbottonato, difesa a 3 e due centravanti.
Risultato: 1-1 risicato sotto la neve in trasferta grazie a un gol sporco di Vieri (ricordate il palo di Darmian? Fosse entrato sarebbe finita 1-1 pure in Svezia) e poi vittoria qui, a Napoli, con un gol in contropiede di Casiraghi, con annesse polemiche per il gioco di Maldini, che pure era stato accolto come colui che avrebbe ripristinato il caro vecchio calcio all’italiana (Mura su Repubblica lo battezzò calcio “pane e salame”) dopo l’ipertatticismo sacchiano. Anche stavolta, una qualificazione per il rotto della cuffia.
Qualificazioni agevoli, Mondiali pessimi
Assai più agevole il cammino verso Corea e Giappone per Giovanni Trapattoni, che ci portò ai Mondiali spezzando le reni nientemeno che a corazzate del calibro di Romania, Georgia, Ungheria e Lituania, salvo poi uscire con la Corea. Liscio pure il cammino di Lippi nel 2006 (avversari: Norvegia, Scozia, Slovenia, Bielorussia, Moldavia) e nel 2010 (Irlanda, Bulgaria, Cipro, Montenegro, Georgia). In entrambi i casi sappiamo com’è andata. Inutile fare commenti sul trionfo di Berlino e sul fallimento in Sudafrica, dove non siamo riusciti a vincere né contro il Paraguay né contro la Nuova Zelanda, perdendo poi contro la Slovacchia di Hamsik, quando pure ci bastava un pari. Anche Prandelli ebbe un percorso agevole nelle qualificazioni (Danimarca, Repubblica Ceca, Bulgaria, Armenia e Malta) e anche lui andò via dopo una clamorosa eliminazione per mano del Costarica.
Critiche sì, ma con la giusta prospettiva
Senza voler entrare nella retorica della “occasione buona” per la rivoluzione (stessa frase sentita nel 2010 e poi nel 2014), occorrerebbe perlomeno un po’ di raziocinio nel distribuire le colpe: smaltita la rabbia, una analisi corretta non può prescindere da certi riferimenti, che ci aiutano a capire come – nel calcio, ma non solo – la differenza fra un successo e una sconfitta risiede spesso nel fato.