ilNapolista

Da Sacchi a Conte, l’Italia e i ct “professionisti”

In principio fu Sacchi.

Il più rivoluzionario degli allenatori del calcio moderno, riuscito ad assurgere al ruolo di guru del calcio italiano dopo una brevissima carriera ad alti livelli, ha anche un altro piccolo doppio-record, quasi mai citato: non solo è stato il primo allenatore del calcio moderno (diciamo: dagli anni Sessanta-Settanta) ad arrivare alla Nazionale direttamente da un club senza aver mai avuto prima un ruolo in Figc, ma è stato anche il primo ad abbandonare l’Italia, dando addirittura le dimissioni con un contratto in essere, perché (ri)chiamato da una squadra di club.

Ora sembra una cosa normale, tanto che sui giornali nazionali quasi nessuno più si scandalizza all’idea che Conte lasci l’Italia per il Chelsea (gli allenatori – si dice – ora sono dei “professionisti della panchina”, hanno il procuratore, i diritti di immagine e vanno da chi offre di più), ma appena 20 anni fa abbandonare la Nazionale del proprio paese, il punto di arrivo di ogni sportivo, era considerato quasi sacrilego.

Era l’Autunno del 1996, Sacchi veniva dalla delusione degli Europei inglesi, ma fin lì aveva rifiutato l’idea delle dimissioni “per colpa”, forte di un contratto che lo proteggeva fino ai Mondiali del ’98. A fargli cambiare idea fu la chiamata di Berlusconi, che gli chiese di salvare il Milan dal naufragio: «Una scelta di cuore – si giustificò – i soldi non c’entrano».

Anche Conte arrivò alla Nazionale “per una scelta di cuore” e un lauto stipendio, nulla a confronto di quello che percepirà se (come ormai sembra certo) dovesse andare ad allenare il Chelsea del magnate plurimiliardario Abramovich, pronto a ricoprirlo di dobloni e di campioni. Con buona pace del Club Italia, dell’idea di aprire un nuovo ciclo azzurro e del “progetto tecnico unico” voluto dalla Figc, che aveva puntato su di lui affidandogli il ruolo di Coordinatore delle Nazionali Giovanili maschili, dall’Under 15 alla Nazionale.

E con buona pace anche delle regole interne: «Quando c’è l’evento – disse Conte da neo CT – voglio che i giocatori si concentrino sull’evento e non su altre cose». Una regola che a quanto pare non vale per lui, che (sempre stando a quanto si legge e in attesa di smentite ufficiali) da tempo sta flirtando con il Chelsea, a poche settimane dall’Europeo.

Ma la colpa – se colpa c’è – non è certo di Conte.

Finché si continuerà a considerare la Nazionale Italiana (anzi, le nazionali, non solo di calcio) alla stregua di una squadra di club e l’incarico di Commissario Tecnico come uno dei tanti passaggi di una carriera da girovago delle panchine, non potremo stupirci di comportamenti simili. Anzi, prima o poi ci toccherà accettare anche un allenatore straniero, lungo la strada già imboccata dall’Inghilterra e da molte nazionali extraeuropee (e, per inciso, non si capisce perché la regola della “nazionalità”, che vale in modo stringente per i calciatori, non venga applicata anche agli allenatori e magari a tutto lo staff tecnico). Senza dimenticare l’effetto straniante di vedere Maldini e Trapattoni – ex allenatori della Nazionale Italiana – alla guida di altre rappresentative nazionali durante Mondiali ed Europei.

In principio fu Sacchi, abbiamo detto.

Prima di lui, fin dagli anni ‘70 si prediligevano allenatori formati in Federazione, spesso provenienti dalle selezioni giovanili o comunque con un passato nello staff federale. L’ultimo CT ad aver avuto una carriera rilevante nei club era stato Fulvio Bernardini (scudetti con Fiorentina e Bologna) ma anche lui aveva avuto una esperienza federale, negli anni ’40. Poi vennero Bearzot e Vicini, quindi (dopo la parentesi Sacchi) Maldini e Zoff. Tutti con un solido passato azzurro. Tutti considerati “super partes”: personaggi nei quali i tifosi italiani potevano riconoscersi al di là delle rivalità di club. Persino Zoff, che pure aveva legato il suo nome alla Juve, era ed è considerato patrimonio della nazione più che uomo bianconero.

E cosa più importante di tutte: ognuno di questi CT considerava la nazionale come la consacrazione della propria carriera. E infatti nessuno di loro poi lasciò la Nazionale perché preferiva allenare un club.

La nazionale non è un club.

Prima di Sacchi, i periodi di permanenza alla guida della nazionale erano mediamente più lunghi rispetto a oggi: c’era quindi il tempo di formare un gruppo solido, di far crescere i giovani e, perché no, di far crescere lo stesso allenatore, che aveva così modo di abituarsi al ruolo e alle grandi competizioni per squadre nazionali. Per quanto si possa essere preparati, infatti, né la Champions né un campionato nazionale hanno il fascino, i ritmi, lo stress e l’attenzione mediatica di un Mondiale o di un Europeo.

Non sappiamo se sia più facile o più difficile. Senza dubbio è diverso. La nazionale non è un club. Ed essere un bravo allenatore in un club non equivale esserlo in nazionale.

Se in un club l’allenatore (che ha il tempo di imporre le proprie idee) incide secondo alcuni per il 30%, in una rappresentativa nazionale questa percentuale scende drasticamente. E cambia pure il modo di incidere: non certo per le idee tattiche, piuttosto per il carisma, per la capacità di scegliere gli uomini, di gestirli, di ispirare fiducia, di creare amalgama, di interpretare il momento di una partita. È così, del resto, che abbiamo vinto gli ultimi due Mondiali. Non certo per il credo tattico di Lippi e Bearzot.

La soluzione è tornare ai tecnici federali, quindi? Perché no. Magari non subito, ma ci si potrebbe lavorare. Però almeno, per il dopo Conte, ricordatevi che il calcio (e soprattutto la nazionale) è amore: dateci uno che non ci tradisca alla prima tentazione di un club.

 

Post scriptum: che poi, e qui Conte è autorizzato a fare tutti gli scongiuri che vuole, non è che sia andata tanto bene a chi ha lasciato la Nazionale. Sacchi fu esonerato dal Milan, Lippi tornò dopo due anni sabbatici e fu protagonista del peggior Mondiale della storia del calcio italiano, Prandelli è stato esonerato dal Galatasary. 

Ancor più clamorosa la statistica degli ex CT dell’Under 21. Non sappiamo quanto siano pagati, ma immaginiamo che abbiano uno stipendio superiore a quello di un metalmeccanico, peraltro facendo meno fatica. Eppure, negli ultimi 16 anni, ben 5 allenatori dell’Under 21 (nell’ordine: Tardelli, Zola, Casiraghi, Ferrara e Mangia) sono scappati dall’Azzurro perché allettati dalla prospettiva di allenare un club (e quasi mai un “top club”).

E tutti hanno miseramente fallito: Mangia non ha più allenato in A e colleziona esoneri in B, Ferrara è stato esonerato dalla Sampdoria e fa l’opinionista in tv, Casiraghi e Zola sono stati esonerati dal Cagliari e ora sono in Qatar. Addirittura clamorosa la parabola di Tardelli, che nel 2000 era sulla cresta dell’onda, veniva da un Europeo e un quarto olimpico con l’Under ed era uno dei candidati in pectore ad assumere presto la guida della nazionale maggiore: all’azzurro invece preferì il nerazzurro, allettato dalla proposta di Moratti, che poi lo esonerò dopo pochi mesi, stroncando di fatto la sua carriera di allenatore ad alti livelli.

ilnapolista © riproduzione riservata