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L’ossessiva ricerca della colpa, nella sinistra e nel Napoli

L’analisi comparata della vita media dei segretari dei partiti di sinistra conferma che non perdoniamo più alcun errore. In politica, come nel calcio

L’ossessiva ricerca della colpa, nella sinistra e nel Napoli
Togliatti, juventino, allo stadio con Gianni Agnelli

Il calcio e la politica

È il calcio a spiegare la politica o la politica a spiegare il calcio? Forse sono entrambi a fornire una prospettiva su come ci siamo trasformati negli anni e cosa ci terrorizza maggiormente in questi giorni.

Nelle ore in cui esso sembra dissolversi nella Trinacria è interessante leggere la lista dei segretari del principale partito di sinistra, dal lontano 1926 ad oggi. Il Pci annovera 8 segretari di partito nei suoi primi 65 anni di storia. Dopo la sua trasformazione in Pds ce ne sono 2 in 7 anni. I figli della nuova mutazione in Ds eleggono 3 segretari in 9 anni. Infine, gli iscritti del Pd, in 10 anni, ne sceglieranno 7. Gli anni di vita media del segretario del maggiore partito di sinistra sono passati in novant’anni dagli 8 del secolo scorso, a 3.5, 3, fino a raggiungere il minimo di 1.4 nell’ultimo decennio. Significa che oggi il capo del partito di sinistra ha una durata cinque volte minore rispetto ai suoi antichi predecessori.

La spiegazione semplicistica data dinanzi a questo fenomeno dalla maggior parte dell’opinione pubblica – e dei politici populisti al suo seguito – è che il genere umano è peggiorato: la classe dirigente è meno capace e molto più corrotta degli anni d’oro che furono e che non torneranno più a meno di un fantomatico controllo diretto della cosa pubblica da parte dei cittadini. Insomma: c’è stata una strana mutazione genetica.

Non perdoniamo alcun errore

Una spiegazione più scomoda e che riscuote meno successo, sebbene più realistica, è che siamo diventati totalmente insofferenti nei confronti di qualunque fallimento. Non perdoniamo alcun errore, non sopportiamo lo sbaglio e ne abbiamo disconosciuto l’enorme valore educativo. Nelle famiglie, nelle scuole, sul campo di calcio, a letto. Non ci sentiamo parte di alcun processo evolutivo, di alcuna storia comunitaria. Non sentiamo il contenuto epico dei nostri abissi. Rifuggiamo il divenire, lo abbiamo derubricato a banale incoerenza, e lo barattiamo con questo costante camouflage di nomi di partiti, modulo di gioco e mancati acquisti, perché cerchiamo un prodotto e mai un romanzo.

Pretendiamo costantemente che ci venga restituita quella che ci affanniamo a chiamare la nostra identità, senza riuscire concretamente a connotarla in nessuna maniera plausibile. Dovrebbe avere una identità la sinistra, dovrebbe avere una identità Napoli, ma quando ci chiediamo quale essa sia le risposte sono molteplici e incongruenti. Ciascuno porta una manciata di esempi, al meglio un pugno di storie singole e particolari, qualche ricordo vago ma niente che realmente possa considerarsi un mondo, un universo, una terra promessa verso la quale tendere o di cui anche solo parlare. Questo perché l’unica vera eredità culturale disponibile è solo l’insieme dei propri errori commessi.

Quale storia non comporta fallimenti?

D’altra parte quale storia non contempla fallimenti, quale racconto non contiene la sua parte oscura, espressa o irrisolta? Non commise errori persino Gramsci? Non fu sopravvalutato finanche il gioco sempre incensato di Vinicio? Non fallì in tante istanze anche Togliatti? Non prese quattro in pagella addirittura Maradona?

Sarà difficile fare anche un singolo passo in avanti se non ci decideremo ad abbracciare i nostri crimini, commessi in segreto e col colpevole benestare dei nostri compagni di viaggio, e ciononostante continuare a muoverci accollandoci assieme il peso di questi fallimenti, senza fuggire uno dopo l’altro abbandonando una nave che affonda – sia esso un partito o la nuova storia di una società di calcio.

La costante dinamica della colpa

Nel mondo pallonaro questo avviene ogni giorno, nella costante dinamica della colpa. Espulsa ed addossata su allenatori, giocatori, presidenti, in questa logica primitiva della espiazione per cui, se si riesce ad individuare un capro espiatorio e ad espellerlo come un calcolo renale, allora potremo illuderci di rimanere in vita – come singoli, come partito e come squadra. Il male è sempre altrove, nella classe politica o nel consiglio d’amministrazione della società del cuore.

Il Napoli nasce da un fallimento. Ci piaccia o no, un fallimento comporta un’onta sulla storia precedentemente vissuta. E noi ce l’abbiamo, una macchia gigante su cui abbiamo mangiato a sbafo tutti senza un domani. La sinistra è meno fortunata: ha creduto in massa in modelli crollati sotto il peso del tempo e ancora stenta a guardarsi in faccia per recuperare qualche idea buona. Il fallimento che non si riconosce non basta a tornare umilmente al servizio della comunità nuova. Ancora ci sono persone che hanno creduto in gioventù nella nascente dittatura del proletariato a Catanzaro o a Gradisca d’Isonzo ma sorridono come si sorride ai deficienti creduloni se gli dici che il Napoli può vincere lo scudetto quest’anno.

E il Napoli che vincerà sarà figlio dei suoi guai, li riconoscerà come il proprio vero oro. Ed avrà imparato finalmente a guardare con ironia e un certo distacco le cariatidi del proprio passato. Perché passa tutto ma rimangono soprattutto i nostri sbagli. Gli uomini veri non cedono agli exit poll e se li portano sulle spalle, senza fretta ma senza pausa.

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