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Sarri e il rifiuto dell’allenatore manager e aziendalista (Ferguson, Mou, Allegri)

L’allenatore che fa anche il mercato, è un’esclusiva del Regno Unito. C’è una zona grigia di contaminazione anche in Italia, ma Sarri sceglie il bianco o il nero.

Sarri e il rifiuto dell’allenatore manager e aziendalista (Ferguson, Mou, Allegri)

Questione di modello

Mentre rileggevamo i tweet di Alessandro Pellegrini sul lavoro di “allenatore e basta” di Maurizio Sarri, ci sono venute in mente diverse cose. Intanto, la definizione di manager calcistico. Il ruolo cui l’allenatore di oggi dovrebbe tendere, ci è venuto da dire. Ce lo spiega il calcio europeo, lo spiega a noi italiani che siamo sempre in ritardo. Poi, però, abbiamo l’opera (sempre complessa) di andare oltre ai luoghi comuni: da dove e fino a dove esiste questa figura? Oppure, diciamola meglio: a parte la Premier League, in quale altro ambiente calcistico gli allenatori propriamente detti si occupano anche del calciomercato?

In realtà, se ci pensiamo, bisogna fare dei distinguo anche sul caso inglese. Prendiamo Conte: lavora allo stesso modo di Ferguson? Oppure Mazzarri che l’anno scorso di questi tempi si aggregava al Watford. Ecco, il buon Walter ha lavorato come Benitez o Mourinho? Ci pare una definizione esagerata della realtà.

Quindi, come dire: il campo d’azione è vasto, quindi vario. In Bundesliga e Liga, sono i club ad occuparsi di mercato. Basti pensare al Bayern Monaco o al Real Madrid, top team con una struttura dirigenziale apposita per lavorare sui trasferimenti. Certo, tra bianco e nero c’è una bella zona grigia: pensare che Ancelotti o Zidane non abbiano alcuna occasione per esprimere il loro parere è pura utopia. E la stessa cosa avviene in Italia, eccome. Come ci ha spiegato e non spiegato Allegri, il tecnico più loquace e quindi intervistato del nostro calcio.

Il grigio

In una recente intervista a Calcio&Finanza, il tecnico della Juventus spiegava: «Un tecnico può essere un buon manager, anzi io penso debba esserlo. Non capisco perché ci sia reticenza sul fatto che queste due cose convivano. Io sono un collaboratore della Juventus, pongo le basi per i successi sportivi e quindi devo conoscere le strategie economiche della società e gli obiettivi». L’idea della dimensione partecipativa degli allenatori.

Poche righe e pochi giorni dopo, però, Allegri ha parzialmente smentito se stesso: nella stessa intervista spiega che un buon tecnico, secondo lui, deve essere «aziendalista. L’essere aziendalista significa lavorare per l’azienda, fare in modo che il valore dei calciatori cresca. Del resto, le società di calcio, oggi, sono delle vere e proprie imprese. Sulla messa a punto delle strategie di mercato io sono sempre in contatto con il club, ci si sente quattro-cinque volte al giorno. Ma il nostro compito è trarre il meglio anche dalle situazioni negative, in passato quando mi sono state annunciate cessioni importanti, pesanti nella gestione del gruppo, sono sempre stato realista ma mai pessimista».

Poi, a Paolo Condò ha detto: «Io non ho chiesto Higuain alla Juventus. Sapevo che la mia rosa aveva bisogno di qualcosa in più in Europa, però per Pogba non ho nemmeno tentato di oppormi dopo aver sentito quelle cifre». Insomma, siamo tra bianco e nero. Siamo in un grigio: un po’ allenatore, quindi semplice gestore delle risorse messe a disposizione dalla società; un po’ manager, soprattutto nel mettere a punto le strategie. Non un ruolo operativo, comunque.

La realtà delle cose

Ecco, Allegri rispecchia e racconta una verità. La verità del calcio italiano. O meglio: la bugia del calcio inglese. Noi italiani abbiamo la caratteristica di riempirci la bocca con i modelli esteri, a volte senza conoscerli davvero. Ma la Premier League è una storia a sé, si differenzia da ogni altro ambiente calcistico e ammette la sovrapposizione dei ruoli. Altrove, gli allenatori-manager sono figure sporadiche, quasi mitiche. In Italia, per esempio, è passato Mourinho. Che, accanto a Oriali e Branca, diede un grosso contributo a costruire la squadra del Triplete. Abbiamo visto all’opera Benitez che a Napoli ha portato Quillon e i suoi contatti con gli ambienti spagnoli e della Premier.

Intorno a loro, però abbiamo visto Ancelotti “ritrovarsi” Kakà come Ricardo Oliveira, abbiamo visto Lippi alle prese ogni anno con una Juve diversa, abbiamo visto Mazzarri che “hun honosce Vargas”. Tanti esempi, come all’estero: Blanc al Psg, Emery al Siviglia con Monchi, tutti gli allenatori del Porto e del Benfica, costretti ogni anno alla diaspora del talento.

Dilatare o restringere le responsabilità

Maurizio Sarri ha scelto il nero o il bianco per sé stesso. Dal punto di vista del racconto mediatico, non si scappa: Sarri fa l’allenatore e basta, al massimo “si confronta” sul mercato. Che poi anche questa è una zona grigia, se ci pensiamo: il confronto, per definizione, identifica uno scambio di opinione. Se Sarri “si confronta” vuol dire che, in qualche modo, dice la sua. Magari il suo parere non è vincolante, ma influenza in qualche modo le scelte strategiche. Lo stesso sodalizio perfetto con Giuntoli, anche se non a tavolino, porta a strategie condivise. Il caso Mario Rui è esemplare, così come la continua rincorsa a dichiarare la forza di Maksimovic lo scorso anno.

Ecco, Pellegrini ha esagerato. Perché quello che scrive può essere vero fino solo fin quando un lettore può e vuole credergli. Certo, la volontà del tecnico potrebbe essere quella di responsabilizzare gli altri reparti del club, di rimanere un gestore del campo e delle cose di campo, di continuare ad agire secondo la narrazione dell’allenatore e basta, come scritto sopra. Che, come abbiamo visto, è tipica del nostro sistema calcistico. Anzi, del sistema calcistico in generale con alcune eccezioni. Eccezioni pesanti e ingombranti dal punto di vista narrativo. Come Ferguson e Mourinho, ma che non hanno fatto da manuale oltre certe esperienze, oltre certe situazioni. Loro sono il bianco, o il nero; in mezzo, gira il calcio e c’è anche Sarri. Anche se fa una fatica boia ad ammetterlo.

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