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Il mio calcio è l’illusione del gioco, è una partita sullo stradone di Ischia Ponte

1987: un video amatoriale di una partita di calcio allo Stradon, all’ombra del Castello Aragonese, è un modo per capire cosa significhi questo gioco.

Il mio calcio è l’illusione del gioco, è una partita sullo stradone di Ischia Ponte

Ho scoperto cosa sia per me il calcio in una notte quasi estiva nel centro Europa, quelle in cui costeggi fiumi e specchi d’acqua che ti ricordino un po’ il mare. La risposta l’ho trovata girovagando in quel magma meraviglioso che è YouTube – una quasi-partita di calcio, quasi-giocata e non guardata (come direbbe il mio amico Gianni Montieri) tenutasi trent’anni fa sul selciato dello stradone di Ischia Ponte, a ridosso della scogliera e all’ombra del Castello Aragonese- ovvero allo stadio Stradon, come lo chiama il telecronista Zio Teseo, un nome da fantasma di un racconto fantastico di Borges. Nove minuti di spettacolo surreale, un VHS sospeso a metà strada tra il punk dei Clash e i migliori Monty Python, vite di personaggi dei quali si conoscono gli epiteti ma non i nomi. Forse non sono mai esisti.

C’è l’occhio del cameraman Rino il Malandrino, la rete televisiva Tele Ideal che ricorda indifferentemente il mito della caverna di Platone e la nota marca dei gabinetti. C’è tutto, l’alto e il basso, il sopra e il sotto, ed il mare che – unico – riesce nell’impresa di sostenere una non-partita salmastra e il delirio di un uomo che la racconta. E poi un profluvio di nomi quasi biblici: quello delle squadre – lo Zupstock Panathinaikos e l’Hoff Argentinos – e dei loro massimi eroi – Ciro Macbeth e Juan Cuciuffo – diretti dall’arbitro dal sapore teutonico Von Kianken. Echi shakespeariani rimestati in dense salse pop e postmoderne, spettatori che buttano occhi distratti su un match che pare debba continuamente cominciare senza mai compiersi del tutto, come la blue note in una scala musicale.

Come entrare a Gerusalemme

D’altra parte l’ingresso in campo avviene a bordo di umilissime Fiat 127 e Renault 5, la riedizione isolana di una entrata a Gerusalemme. A volte sembra di rivedere l’indimenticata partita fantozziana tra geometri e ragionieri, ma manca il cinismo genovese di Villaggio. La palla rossa rotola invece tra gambe di pescatori e effluvi di tavole calde, tra stinchi e tibie insicuri di uomini del Tirreno pronti a trasalire qualunque logica di gioco, persino dopo l’invasione di campo del Principe di Calasirto domata dal Colonnello Vaucheck.

Uno spettacolo che avrebbe ispirato più di una pagina del Breviario Mediterraneo del grande Predrag Matvejević, sarto ed incisore di queste terre comuni, che forse aveva questa non-partita negli occhi quando raccontò gli abitanti della costa come uomini strani, particolari, scrivendo: “la chitarra e la serenata, la fiacca e il dolce far niente, il lenzuolo e l’asciugamano, la siesta e la festa, il dispetto e la bestemmia, le bocce o balotte, il tresette e la briscola, i vari maestri, faccendieri e ciarlatani, i birichini e i facchini che a Spalato si dicono mandrilli, gli ufficiali di marina e i pellegrini, gli originali che a Dubrovnik chiamano leri, i commedianti e i ruffiani, le suore e le puttane per le quali i Croati adoperano le parole italiane come anche per gli apostoli e i farabutti, insomma tutti quanti.”

L’illusione del gioco

Il calcio, per me, è questo: è tutti quanti. È questo filmato. Un continuo riverbero di un evento mai trascorso che ritorna, scevro di ogni nostalgia. Carico di oggi. Il gioco col rimpallo sul muro di cinta. Tom Bastrochaga che finge di essere milanese quando viene intervistato. Juan Carlos Mutandez – chissà cosa starà facendo oggi. Chissà se siete mai esistiti. Non ho la curiosità di saperlo. Mi basta l’illusione di questo gioco.

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