ilNapolista

Napoli non è immune alla trasformazione del tifo che ha svuotato gli stadi

L’io c’ero ha preso il posto dell’io partecipavo. Questo ha portato alla crisi del modello ultras. L’eccezione Barcellona.

Napoli non è immune alla trasformazione del tifo che ha svuotato gli stadi
Tifosi del Napoli in una foto di Matteo Ciambelli

Essere spettatori non richiede la presenza fisica

C’è un bel saggio di Raffaele Simone “Presi nella rete” che descrive in modo analitico il cambiamento sensoriale generato e ormai consolidato dalla nuova modalità comunicativa attiva nelle relazioni sociali. Per quanto se ne dica, speculando sulla privacy che resta, o dovrebbe restare, diritto inviolabile, ognuno di noi è fortemente e pericolosamente esposto alla pubblica critica ma, di contro, è impossibile restare anonimi, o riservati, se si vuol essere socialmente significanti. Ma l’attuale modalità socializzante richiede una certa prassi comunicativa imponendo, a scanso di oblio, l’esserci attraverso la rete o “il mostro mite”, come in un altro bel saggio lo definisce lo stesso Simone.

Il gretto individualismo sociale, di per sé un ossimoro ma che attualmente perde la sua efficacia oppositiva divenendo una categoria ontologica consecutiva, inclusiva, ha depressurizzato l’enfasi rituale della partecipazione corale trasformando l’esserci in una monogama relazione tra l’evento e il fruitore. In parole povere: l’arte si è mutata in evento e non chiede più partecipanti (partecipare presuppone quindi una relazione fisica, antropologica) ma semplicemente spettatori. E l’essere spettatori non richiede in alcun modo la presenza fisica, il luogo diventa secondario a discapito della visione.

Gianfranco Pecchinenda nel suo saggio “Homo Videns” ne ha ben spiegato il concetto: l’attuale fruizione, secondo i dettami sensoriali propri della società visiva, ha modificato sensorialmente la socializzazione umana (intesa in senso didascalico) preferendo due sensi che prima erano totalmente secondari se non sottovalutati, la vista e l’udito. Gusto, olfatto e tatto, che rappresentano i più realistici percettori della concretezza fisica, lasciano il posto agli altri due che, per loro natura, sono i tramiti dell’immaginazione.

Pier Paolo Pasolini

Pier Paolo Pasolini scegliendo il cinema come sua unica, se non assoluta, modalità espressiva, affermò che l’immediatezza dell’azione umana risultava molto più facilmente (o antropologicamente) riconoscibile e rendeva l’espressività estremamente semplice, immediata, a discapito (ahi lui e di chi scrive) della vecchissima “letteratura”. Molto più semplicemente: la società dei media ha innescato un meccanismo, propedeutico ma non irreversibile, che ha trasformato l’uomo sensorialmente; vedere e udire sono molto più semanticamente “leggeri”, da un punto di vista ermeneutico, rispetto alla lettura che sì utilizza la vista (come medium) ma presuppone uno sforzo intellettivo, per certi versi tacito, nella subordinata necessità di coinvolgere tutti gli altri sensi ad un livello superiore e non stimolandoli fisicamente. Questo spiega perché, banalmente, leggere un saggio o un romanzo, sia più impegnativo di guardare un film.

Le statistiche di De Laurentiis

Le statistiche propinate da Aurelio De Laurentiis, alcuni giorni fa, sulle presenze negli stadi europei possono essere spiegate seguendo queste categorie, il presidentissimo è uomo di cinema, pertanto alcune sue “pontificazioni”, ormai sempre più costanti e coerenti in tal senso, non dovrebbero destare alcuno stupore o, come si è letto su molti giornali, invitare allo sprezzo rispetto alla sua idea di uno stadio salotto da ventimila posti e annessi privilegi e servizi per chi vi accede.

Chi sarebbe contento, soddisfatto di guardare, attraverso lo schermo, uno spettacolo televisivo o un film, con inquadrature distanti, sgranate, poco definite, tanto lontane da privare lo spettatore della finitezza dei contorni, particolari, dettagli?

La crisi del modello ultras

Domanda retorica soprattutto se si prende come riferimento, o come metro di giudizio, il linguaggio mediatico attuale. Perché “postare” (parola che odio in modo viscerale ma che attualmente rende più di pubblicare) su YouTube le immagini di un gol del Napoli ripreso dalla curva? Non ha alcun riscontro partecipativo, corale, rituale nei confronti dell’evento ma una mera e voyeuristica necessità di sentirsi protagonisti per se stessi, “l’io c’ero” prende il posto del più banale e meno significante (da un punto di vista messianico) “dell’io partecipavo o ne facevo parte” che tanto ha caratterizzato l’ormai lontano passato prossimo della partecipazione in senso politico (per politico si intende identitario, legato al concetto di riconoscibilità empatica) più che sociale. Questo ha smantellato la mentalità ultras (la maggior parte dei gruppi ultras, soprattutto quelli non politicizzati, si sono sciolti, vedi la curva A e tutti i gruppi del tifo organizzato che la componevano) che appunto vivevano la partita di calcio come partecipazione, con tutte le conseguenti identificazioni non tanto storiche ma soprattutto emotive, sociali. Il far parte del gruppo è una sorta di annullamento individualistico, l’ultras è parte integrante di una mentalità collettiva, un componente, il tassello di un mosaico. Al contrario in questo dato momento il ricordo storico viene sostituito dal momento ludico, evasivo; postando su YouTube il gol del Napoli sto cancellando il passato sportivo favorendo l’istante “gioioso”; in un certo senso il “Grande Altro” lacaniano si antepone alla storia.

L’idea politica, della politica comunale, amministrativa, di una struttura che mantenga una fisionomia “polisportiva” dello stadio San Paolo è antistorica, deludente, poco attuale. Si sposa con la vecchia e defunta prospettiva, mai praticabile, di salvare “capra e cavolo”, prerogativa non coniugabile con la realtà partenopea.

Tutti gli stadi vanno modificati, ristrutturati, identificati con le pretese e le aspettative della nuova modalità sociale di “tifare”.

Napoli non è Barcellona

Per quanto se ne dica Napoli è una città europea, fortemente identitaria ma europea. Ha subito, probabilmente negli ultimi sette anni, un cambiamento epocale, e qui s’intende soprattutto mediatico, l’unico aspetto che pubblicamente conta. Il popolo minuto che da sempre (già col teatro di Eduardo) ha rappresentato una condizione sociale è stato trasformato in soggetto, spettacolarizzato, stereotipato, da condizione è diventato soggetto agente, per dirla con McLuhan è diventato il medium. Si è evoluto, è progredito, si è individualizzato. Questo ha declassato un certo “familismo” sovrapponendovi l’io sociale.

C’è chi potrebbe dire con una certa riluttanza che a Barcellona si è riusciti a unificare ideologia identitaria con lo sport, il calcio soprattutto, ma storicamente nella Catalogna si è sviluppato un procedimento inverso: la regione ha prosperato grazie a particolari scelte politiche di pari passo con la condizione sportiva, è stato un percorso sociale e poi sportivo non sportivo e poi sociale come invece si pretende dal calcio a Napoli.

Il calcio è un aspetto significativo di un territorio, di una regione, di un’identità ma resta comunque (purtroppo) una componente asettica politicamente. Certamente si identifica con la retorica immagine della cartina di tornasole ma non ne rappresenta la reazione chimica, è soltanto una delle cromaticità che ne compongono il colore.

L’incapacità di diventare sistema Napoli

Napoli è certamente una città particolareggiante, senza dubbio unica, pubblicamente definita ma banalmente europea, ben inserita contestualmente nel drappo monocolore dell’italianità, siamo fortemente identitari ma presuntuosi, questo è un errore che non dobbiamo più commettere o almeno disimparare, scordare. L’incapacità di diventare sistema Napoli, completamente opposto alla concezione colorata della più banale “napoletanità”, è un problema storico, sistemico (italiano) e locale. Ma a Napoli, più che altrove, conserviamo un livore, una faciloneria nel giudizio, che poi è semplicemente invidia, che demolisce incenerendo, toglie stimoli, voglia, appesantisce gli umori; e nel calcio è più che evidente: non si critica De Laurentiis per le scelte sbagliate che avrebbe fatto o le parole che avrebbe detto, si criticano i suoi successi, molto più semplicemente, è il ‘e che ce vò, ‘o sacc fa pur’je di vivianesca memoria alla base del decostruttivismo partenopeo.

In sintesi: lo stadio non è più luogo di rito dove si partecipa ad una cerimonia ma semplicemente un medium attraverso cui fruire un evento, si è trasformato allo stesso modo in cui è mutata e sta mutando la società dei consumi, della comunicazione, dell’individualismo. In tal senso il termine popolare diventa una categoria o semplicemente un’accezione negativa, vuota, in cui nessun individuo (anche chi magari per estrazione potrebbe ricaderci dentro) vuole sentirsi rappresentare. Quando determinati valori cadono, vengono disconosciuti, si provoca depressione, distacco allontanamento.

Tutto ciò è ben espresso dal vuoto sui sediolini trasandati dello stadio San Paolo.

ilnapolista © riproduzione riservata