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Il calcio non è più un rito, è un evento. E il tifo non lo ha ancora compreso

La crisi del tifo è un problema italiano. La trasformazione del calcio ha colto impreparati i suoi fruitori che se ne sono allontanati.

Il calcio non è più un rito, è un evento. E il tifo non lo ha ancora compreso

Ora che l’incantesimo del tifo più bello e numeroso del mondo inizia lentamente a svanire, persino dove è sempre stato difeso a spada tratta, può essere un buon momento per cercare di dare un piccolo contributo ad una discussione nuova – spesso invocata dal Napolista – che sondi finalmente, senza pregiudizi e luoghi comuni, i motivi di uno stadio vuoto.

Iniziamo col ribadire l’ovvia evidenza: tutti gli indicatori storici ci suggeriscono che gli spalti semideserti non sono solo un problema locale. Denunciano piuttosto una chiara tendenza nazionale, nella quale il Napoli si innesta facendo più rumore che altrove, visto il differenziale negativo rispetto al passato molto consistente. Gli stessi indicatori ci dicono che le presenze non sono legate a nessuno dei temi su cui si ama dibattere con una certa velleità: l’accessibilità e i servizi delle strutture, i prezzi, le vittorie della squadra. Il tifo langue sia in stadi eccellenti che in costruzioni fatiscenti, con prezzi alti o popolari, tanto dove si vince che dove si perde. Proviamo allora a tralasciare quanto non pare avere alcuna decisiva influenza sul fenomeno, e a soffermarci invece su due fattori, sinora poco dibattuti. Il primo legato alla trasformazione che il calcio ha subito negli ultimi quindici anni. Il secondo relativo al tipo di mutamento cui la società civile è andata incontro in seguito a tale trasformazione.

Anzitutto, il calcio ha subito un cambiamento ontologico. Fino a tutti gli anni ottanta, e parte dei novanta, esso presentava principalmente le caratteristiche di un rito collettivo, con gli aspetti classici di una religione. L’identità, l’irrazionalità, la comunità. Il tutto regolato nei gesti e le forme tipici della ritualità collettiva: le partite la domenica in contemporanea e ad un orario prefissato, l’unica trasmissione (al massimo due) per vedere i gol, le radio tutte sintonizzate sul medesimo canale, lo stadio. Il rito è ordine, ed è ciclico, per sua definizione. Come la messa domenicale. Come il luogo dove andiamo sempre assieme, sempre durante le feste, sempre con gli stessi amici. Necessita di una cadenza spaziale e temporale precisa e immutabile, perché su questa periodicità fa vivere il senso di una comunità.

La trasformazione iniziata circa vent’anni fa ha mutato il calcio da rito ad evento. A differenza del primo, il secondo ha carattere di estemporaneità e si verifica quando le condizioni lo consentono. Dunque è, per sua natura, irregolare e non ciclico. Diversamente dal rito che si alimenta di simbologie condivise, l’evento rappresenta una esperienza che, in quanto tale, si fonda molto sul rapporto uno-a-uno tra ciò che accade e il singolo spettatore che la esperisce, rendendola, prima che ogni altra cosa, un avvenimento privato. Per quanto i fatti evidenzino questa tendenza nuova – il ruolo della tv nella fruizione dello spettacolo è enorme – il linguaggio che noi adoperiamo per parlare di calcio è fermo a due decenni fa, e questo provoca la strana afonia calcistica cui assistiamo. In Italia il calcio avviene, ma non si riesce seriamente a raccontarlo. E – attenzione – non è che questo sport sia peggiorato. Strappare il calcio alla gabbia del rito ha fatto emergere aspetti nuovi e moderni, come ad esempio l’importanza del lavoro dell’allenatore. Semplicemente il calcio è maturato in qualcosa di diverso che si fa fatica a rappresentare. Un esempio clamoroso è il coro che si sente al San Paolo. Uno spezzone recita: “Una vita insieme a te/la domenica alle tre”. Il paradosso, con qualche vena di comicità, sta nel fatto che il Napoli non gioca praticamente mai a quest’ora, ed è così da anni, e la curva usa un vocabolario vecchio di due decadi, al quale corrisponde probabilmente un sistema di pensiero altrettanto vecchio.

Quali sono le principali conseguenze di questa metamorfosi? La prima è la percezione che lo spettatore ha di se stesso in questo sistema. Se si decide di partecipare ad un rito, il tipo di contributo che si cerca di fornire è a fondo perduto: non ci si aspetta di ottenere alcun ricavo da quanto si offre, perché esso è l’obolo che si paga per essere parte di una festa che si contribuisce a creare. La partecipazione ad un rito, infatti, non prevede alcun investimento. Solo contributi, morali e materiali, a titolo perduto, che consentiranno il nostro attivo godimento a prescindere da qualunque risultato – come fa chiunque speri in una grazia.

La difficoltà che si trova oggi a godere di una festa comunitaria va molto al di là di Napoli e del calcio. Nella vicenda ultima delle Olimpiadi romane, ad esempio, le fazioni che in tutt’Italia si sono formate tra favorevoli e contrari hanno discusso esclusivamente del potenziale ritorno dell’investimento, in termini turistici, economici e di strutture. Pochissimi si sono soffermati sul senso di festa collettivo, che pure sarebbe un motivo sostanziale in un paese come il nostro abbastanza incapace di stare bene assieme, magari domandandosi: “Quanto ci divertiremmo se ospitassimo una Olimpiade?” È paradossale, ma pare effettivamente che l’epoca dei social media abbia privilegiato una visione assai più privatistica dell’esistenza, svilendo il ruolo di bene comune al concetto di servizio, per cui il buon funzionamento di una comunità si misura esclusivamente sulla bontà dei servizi offerti in cambio di quanto il cittadino sborsa. In questa dittatura dei servizi il buon lavoro di una istituzione si parametrizza solo sulla sua efficienza, ma si tralasciano concetti apparentemente più aleatori eppure fondamentali quali, ad esempio, la felicità delle persone che vi partecipano. Ci si può trovare, cioè, ad avere bagni puliti con posti numerati allo stadio e tifosi depressi. Per dirla con la frase del diavolo che in Harry a pezzi risponde a un Woody Allen che si lamenta del fatto che ci siano tante cose di cui lui potrebbe essere arrabbiato: “Chi non ne ha? Ma prima o poi la devi piantare. E’ come a Las Vegas: ora su, ora giù. Ma alla fine vince sempre il banco, il che non esclude il divertimento.” E’ la migliore definizione della vita – o della festa. Esci squattrinato ma gaudente.

Giungiamo allora al secondo tema. Cosa hanno fatto le società civili per mettersi al passo? Molte cose, e tutte diverse. Ci sono almeno tre esempi differenti: Germania, Inghilterra, Spagna.

La Germania, generalmente ricca ed efficiente, è un paese stranamente anacronistico su diversi temi. Uno è quello del calcio. Nel 1998 ha varato una riforma calcistica molto vasta e assai profonda, denominata regola del 50+1, modificando le fondamenta di questo sport nel paese. Ha riportato le squadre nazionali alla loro natura originaria, ossia quelle di club: luoghi virtuali e reali che si basano sull’associazione di persone. Sembra banale, ma le squadre di club in moltissimi altri paesi, Italia compresa, tutto sono fuorché club. Più precisamente sono società rilevate da potentati economici, nazionali o internazionali, che investono su un marchio. L’associazionismo è ridotto all’osso. I tifosi sono principalmente clienti di un evento. In Germania, viceversa, gli affiliati ad un club pagano una tessera annuale solo per contribuirne all’esistenza, aiutando così la formazione di un fortissimo senso identitario nelle squadre. In sostanza, in Germania si è fatto fronte alla trasformazione del calcio in evento tornando, dove possibile, al calcio-rito. La prova di quanto detto è nel livello di appeal della Bundesliga, che rimane un campionato di secondo piano in tutti i paesi che non siano la Germania, proprio perché fuori dai confini nazionali è difficile comprendere il senso identitario dell’Eintracht o dell’Hertha. D’altra parte il senso comunitario interno è così intenso che da una parte genera gli anticorpi necessari quando c’è chi cerca di aggirare il sistema (l’esempio della protesta contro il Lipsia ne è prova evidente), dall’altra costruisce e cementifica una nazionale che vince il campionato del mondo.

L’Inghilterra è agli antipodi rispetto alla Germania. La Premier più che un campionato è una piattaforma su cui si implementano soluzioni, e funziona perché è talmente ricca da attrarre investimenti da ogni dove che contribuiscono a creare un prodotto confezionato alla perfezione ed appetibile ovunque. Mentre la Bundesliga ha basato tutto sul senso identitario dei club, l’Inghilterra è la patria del calcio inteso come evento. Questo è il motivo per cui in Italia è facile trovare tifosi dell’Arsenal ma molto più difficile trovarne dello Schalke.

Un altro caso intermedio interessante è la Spagna, dove i club principali sono estremamente ricchi, eppure il senso identitario, specie di alcuni, è assai prorompente. La Spagna, infatti, ha portato a termine un esperimento assai moderno per cui alla base del senso identitario c’è un dato estetico, ossia il gioco. Riconosci una squadra spagnola dal modo in cui tocca la palla, dal modulo usato, dalla tecnica richiesta ai giocatori. Il calcio spagnolo è dunque un ibrido interessante fondato su una caratterizzazione specifica del gioco, che è esso stesso il dialetto che identifica le squadre. Tanto che allenatori di successo che non parlano la medesima lingua tecnica della piazza, come avvenuto nel caso Benitez al Real lo scorso anno, hanno difficoltà ad entrare in sintonia con il tifo, finendo per essere rigettati come un corpo estraneo.

Qualunque sia il vostro punto di vista, o la riforma che l’Italia deciderà di avviare, una cosa è certa: il tifo è in una crisi di linguaggio. Una crisi complessa, determinata da molti fattori concorrenti, che richiedono una discussione onesta. E che altrove è stata già affrontata. Rimanere inerti, o blandire le curve, continuando a spingere sulla condizione della città di cuore frustrata nel proprio entusiasmo, non giova a nessuno. Né agli spettatori, né alle società, né alla stampa. Speriamo sia la volta buona.

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