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Noi, prigionieri delle nostre sicurezze, dobbiamo trovare il coraggio di cambiare

Considerazioni a caldo dopo Napoli-Roma sulla capacità di reagire e di cambiare della formazione azzurra

Noi, prigionieri delle nostre sicurezze, dobbiamo trovare il coraggio di cambiare
Foto Cuomo

Lo avevamo accennato già qualche mese fa, proprio dopo Roma-Napoli: forse serve uno psicologo a questo Napoli, che perde partite con troppa naturalezza, non appena le cose si fanno un po’ più complicate e la partita diventa sporca.

Una mancanza di elasticità, una scarsa predisposizione al cambiamento (all’adattamento oseremmo dire) che invece è condizione essenziale per l’evoluzione, per il miglioramento costante, per la vittoria. Nello sport come nella vita. Il Napoli invece non cambia.

Il Napoli invece non cambia.

Non cambia modulo il tecnico, non cambiano il loro modo di giocare i calciatori. Tutti preferiscono rifugiarsi nelle proprie sicurezze. Un po’ per abitudine, un po’ per paura, un po’ per scaramanzia. C’è un mix di ingredienti da psicanalisi nella tendenza che tutti noi abbiamo, ognuno nel proprio ambito di attività, a reiterare comportamenti, strategie e atteggiamenti che sono risultati vincenti in passato.

Lasciamo per un attimo l’aspetto più marcatamente scaramantico: toccare i santini, entrare in campo sempre con lo stesso piede (magari saltellando, come faceva Diego), baciare in fronte il massaggiatore (idem), farsi il segno della croce, rimanere in coda al gruppo, magari per rubare l’ultimo tiro alla sigaretta… il rituale che precede una partita di calcio (o anche – per noi comuni mortali – un colloquio di lavoro o un esame all’università) è familiare a tutti noi.

Ognuno ha il proprio: ripetere sempre gli stessi gesti ci dà sicurezza. Ma si tratta di cose che poi non influiscono sulla prestazione. Piuttosto sul nostro atteggiamento mentale. No. Qui parliamo delle cose che influiscono concretamente sulla bontà di ciò che facciamo: come ci siamo preparati, cosa abbiamo studiato, come affrontiamo la prova.

Analizzando in modo razionale, siamo tutti d’accordo che ogni prova va affrontata in modo diverso. Eppure tutti abbiamo la tendenza alla reiterazione: “Se una cosa ha funzionato in passato funzionerà anche in futuro” – ci diciamo intimamente, quasi per rassicurarci.  Tradotto in linguaggio calcistico: “Squadra (e modulo) che vince non si cambia”. 

Ma non funziona così: nella vita come nel calcio è fondamentale saper cambiare, sapersi adattare ai contesti, essere elastici e sviluppare una risposta nuova ad ogni impulso. Se una strategia di marketing ha funzionato per vendere pannolini, non è detto che andrà bene anche per le automobili. Dico di più: se ha funzionato in passato per vendere pannolini, non è detto che funzionerà in futuro per vendere gli stessi pannolini. Perché il mondo cambia, cambiamo noi, cambia il mercato, cambiano i culi che indosseranno quei pannolini. Se certi comportamenti piacevano (o non piacevano) alla nostra vecchia innamorata, non è detto che piacciano (o non piacciano) a quella nuova.

Questo discorso vale nel marketing e nell’amore, ma vale ancor di più nel calcio moderno, dove ogni squadra può contare su stuoli di esperti che analizzano le partite degli avversari, elaborano dati, studiano strategie e contromosse.

Abbiamo tutti applaudito Sarri un anno fa quando – più o meno di questi tempi – cambiò idea passando dal 4-3-1-2 al 4-3-3. è andata bene. Benissimo. Abbiamo espresso il miglior calcio d’Italia. Per diverse partita l’allenatore ha schierato gli stessi undici: “La squadra ha bisogno di sicurezze”, diceva. Ma ora sono proprio quelle sicurezze a fregarci. Perché intanto gli altri ci hanno studiato. E hanno trovato le contromosse. E non riusciamo a capacitarci di come una cosa che prima funzionava ora non funziona più.

 

Foto Cuomo

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“Le idee nel calcio invecchiano presto”

“Le idee nel calcio invecchiano presto” disse Gianluca Vialli nel post partita di Juve-Napoli. Una considerazione sulla quale nessuno ha riflettuto abbastanza. Della sconfitta di Torino ricordiamo tutti il gol di Zaza, magari il salvataggio di Bonucci. Nessuno ricorda però che Allegri disinnescò abilmente il meccanismo offensivo di Sarri ingolfando la nostra fascia sinistra (dove si sviluppano gran parte delle azioni) e tenendo basso il suo terzino sinistro (per coprire su Callejon). Fu lui a snaturarsi, nonostante giocasse in casa e doveva vincere per recuperare. Lo fece nonostante la Juve fosse più forte e più in forma del Napoli. Con umiltà e lungimiranza, conscio che anche un pari sarebbe andato bene, visto che i bianconeri erano lanciatissimi e avrebbero avuto un calendario favorevole, Allegri giocò a limitare i nostri pregi ed esaltare i nostri difetti: la scarsa fisicità della catena di destra, per esempio, e non a caso il gol arrivò proprio dopo l’ennesimo duello aereo perso su quel lato.

In certi casi, quando vedi che la strategia non funziona, quando vedi che sei in difficoltà devi cambiare. Noi non lo facemmo. E perdemmo. Allo stesso modo abbiamo perso a Roma. E quest’anno a Bergamo. E stava accadendo pure in casa col Milan. Il cambiamento, la capacità di adattamento al mutare delle condizioni esterne, l’elasticità mentale sono i segreti dell’evoluzione. E non c’è vittoria senza evoluzione. Se non ne sei capace, se non sei abituato (allenato) al cambiamento, sei perdente. Perché accade poi che quando la vita ti impone di cambiare non sai affrontare le mutate condizioni, talmente sei abituato a ripetere sempre le stesse cose. Discorso che vale per Sarri e il suo modulo ma che si potrebbe fare anche per i singoli. Anche i calciatori sembrano prigionieri delle proprie sicurezze, come se i movimenti che sono risultati vincenti in passato debbano necessariamente esserlo anche in futuro. Una predisposizione che va al di là delle naturali caratteristiche di ognuno.

E allora vediamo Insigne e Mertens che tentano sempre gli stessi dribbling e il solito tiro a giro. Vediamo Callejon alla sistematica ricerca degli inserimenti alle spalle del terzino, quando ormai tutti gli allenatori hanno capito che possono essere puniti in quel modo e adottano le opportune contromisure. Vediamo Gabbiadini che prova a muoversi da attaccante, ma alle prime difficoltà si rifugia nelle proprie sicurezze: il tiro di sinistro. E lo vedi affannarsi alla ricerca di uno spiraglio per far partire la bomba, che poi non parte mai… perché lo sanno tutti che quella è la sua qualità più grande e non gli concedono lo spazio.

Discorso simile per la difesa. Ormai lo hanno capito tutti che usciamo palla al piede in quel modo, che non la buttiamo ma ci rifugiamo nei triangoli. Così Jorginho – vertice alto o vertice basso – viene pressato (perché hanno studiato pure lui) e così andiamo in difficoltà e (come oggi) perdiamo palloni e partite. Occorre cambiare. E occorre allenarsi al cambiamento.

 

Foto Cuomo

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Innanzitutto perché bisogna saper reagire quando vedi che gli avversari trovano le giuste contromosse e disinnescano le tue strategie. E poi perché bisogna essere pronti quando accade qualcosa di inaspettato (tipo l’infortunio di Milik) che ti costringe a trovare nuove soluzioni. Ma se non sei abituato a farlo vai nel panico.

Ammettiamolo, sappiamo tutti di cosa stiamo parlando: è una caratteristica molto napoletana quella di rifugiarsi nelle sicurezze: la famiglia, il quartiere, il bar… Ma sappiamo anche che quando ci mettiamo in gioco, soprattutto lontano da Napoli, molto spesso siamo più bravi degli altri proprio perché sappiamo essere elastici e fuori dagli schemi. Sappiamo farlo: è nel nostro Dna. Dobbiamo solo avere il coraggio di provarci.

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