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Napoli è maestra nel celebrare il suo funerale. Ricordiamoci che siamo ancora secondi

Napoli è maestra nel celebrare il suo funerale. Ricordiamoci che siamo ancora secondi

Ci sono pochissimi luoghi geografici e dell’anima nei quali ti è concessa la leggerezza necessaria per avere il privilegio di partecipare sia al tuo suicidio che al tuo funerale. Scegliere con disincanto claunesco l’arma per il tuo delitto ed anche i fiori che accompagnino il tuo requiem. Uno di questi è senz’altro Napoli.

Ho sulla scrivania la stampa in monocromatico di quella foto che ritrae Higuain e De Laurentiis, appena giunti alla Corte sportiva d’appello. L’argentino in completo nero e mani giunte in preghiera, il presidente greve in un viso cinereo che risalta la cravatta scura, un gesto plastico quasi michelangiolesco fa per sostenere il campione, l’auto da gloriosa pompa funebre posa sullo sfondo. Il feretro è lasciato alla immaginazione di tutti, ciascuno si fabbrichi il suo. Disteso sull’acqua salmastra di qualche costa del golfo, adagiato su fiori di zucca e cannolicchi; ricoperto di fogli dei libri contabili del depredato Regno delle due Sicilie; coronato di fischietti e bandierine di direttori di gara e segnalinee ostili. Un feretro carnascialesco come piace alle nostre fiere viscere, quelle che ci impongono di presentarci dinanzi a un giudice giammai solo con l’ausilio di un semplice avvocato – troppo ordinario. Dinanzi alla legge ingiusta devono presentarsi il cuore sventrato del tesserato e il suo canuto padre presidente nell’imprescindibile costume sceneggiatesco, quello cui non sappiamo sottrarci e che storicamente nacque per raggirare un balzello, tutto vero e tutto finto, un po’ De Curtis e un po’ Rosario Chiarchiaro, un po’ Francesco zappatore e un po’ Mike Barker ammericáno.

Ci siamo superati nel nostro sport cittadino per elezione: il tiro al proprio piede. C’è sempre un momento in cui il cuore lo smarriamo e poiché non basta uno stetoscopio per rintracciarlo ci è imposto mozzarci gli alluci, squagliandoci piano piano al sole. Esattamente un girone fa il Napoli passò proprio contro i nerazzurri, tra pali scheggiati rimbalzi improbabili fortune rivoltate eppure la sensazione che avemmo anche allora, all’indomani, quasi amara, di aver ottenuto qualcosa che non potessimo meritare, un pudore un po’ vile che ci accompagna tutti nell’aver superato per un attimo, quasi per errore, quel timore costante che non va via, come un tanfo che non sappiamo scrollarci, la paura primigenia, la paura di non avere paura, che ci travolge ci atterrisce e tramuta la carne in legno e ci tramortisce come burattini. Forse proprio questo stanno mirando il campione e il padre presidente, in questa foto grottesca, in questo funerale di Piedigrotta. Guardano il pinocchio che siamo, senza fili e con le gambe infradiciate.

A Napoli usiamo così. Ci si incontra, le sere tiepide in cui la primavera fa dolcemente capolino e si scorgono i primi fiori d’arancio, e si costruisce con pazienza certosina l’arma prescelta a infliggerci il colpo che ci sarà fatale. Si usa quel tempo comunitario lunghissimo per incontrarsi e immaginare quanto sarà ricco il nostro funerale, stilando la lista degli invitati, in cima alla quale un posto d’onore è riservato a noi, che del linguaggio arcano della cabala possiamo rinunciare all’otto, al cinquantotto, al sessantacinque, ma giammai al novanta, il numero che più di ogni altro sentiamo di sangue fraterno, tondo e reale, che ci ha legati con vincoli carnali e cui da tempo immemore tributiamo i più sontuosi onori.

Cari noi, siamo secondi. Forse ce ne siamo dimenticati. Tra una battaglia inutile da combattere, e quella utile che da sempre si rimanda a domani. Tra il passettino restìo a perdere la provincia e quello che ci spinge ad abbracciare il mondo. In questa stitichezza di sentimenti epici che non riusciamo ad abbandonare. Ma siamo secondi. Nulla è ancora perduto. Il funerale lo abbiamo celebrato. Il torrone ce lo siamo mangiato. Ora possiamo concentrarci, per una volta, una sola volta, su quanto è effettivamente necessario fare, e sommergere il numero novanta sotto il getto fresco di uno sciacquone?

Una volta tanto giocare ad una tombola senza numero novanta.

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