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Sarri può diventare per Higuain quel che Jackson è stato per Michael Jordan

Sarri può diventare per Higuain quel che Jackson è stato per Michael Jordan

Avvertenza: questo pezzo è come certi esami all’università. C’è la propedeuticità. Nel senso che per leggerlo bisogna aver visto questo speciale di 68 minuti che si chiama “Buffa racconta Jordan”. Lo trovate su Youtube, qui, ovviamente piratato. 

Forse, però, chi ne detiene i diritti e avrebbe tutti i motivi legali per farlo cancellare dalla piattaforma e dall’etere, ha avuto un rimorso di coscienza. E ha deciso di lasciarlo lì, ai posteri. Ha fatto un favore a tutti, per la qualità della storia e per la classe assoluta con cui viene raccontata. Ha fatto una gran cortesia anche a chi vuole leggere questo pezzo che scriviamo adesso, sul Napoli e su Higuain e su Maurizio Sarri. Una cosa che ci è venuta in mente stamattina leggendo questa breve, significativa, geniale analisi di Marco Del Checcolo. Chi scrive non è un appassionato di basket americano, né tantomeno un intenditore, anzi. Alcuni suoi amici baskettari, se sapessero che sta azzardandosi a mettere in mezzo alle beghe della Serie A dei veri e propri mostri sacri come Phil Jackson e Michael Jordan, gli toglierebbero il saluto. Però almeno ha guardato lo speciale di Buffa, più e più volte, e ha imparato quasi a menadito la storia dei Bulls e di The Air, Michael Jeffrey Jordan. E la trova incredibilmente somigliante e sovrapponibile a quella di Sarri, Higuain e il loro Napoli. 

Ricostruiamo, servendoci del prezioso aiuto di Buffa e di Wikipedia: Jordan è la terza scelta al Draft Nba 1984 dopo il centro nigeriano Hakeem Olajuwon e il pivot Sam Bowie. È una stella assoluta ancor prima di esordire tra i pro: ha già firmato un contratto da due milioni e mezzo di dollari con la Nike, ha vinto da protagonista l’Olimpiade casalinga del 1984 ed è riuscito a far inserire nel suo primo contratto con la sua nuova squadra la clausola “love of the game”, che gli permette di scendere in campo sempre, comunque e nonostante gli infortuni. Una tutela per gli eletti del gioco come lui. La sua nuova squadra sono i Chicago Bulls, franchigia di scarso fascino, dal passato poco glorioso e dal presente stropicciato. Una squadra maledetta, che gioca in un palazzetto dello sport maledetto e non ha aspirazioni di vittoria nel breve e medio termine. Ora, però, c’è Jordan. E tutto cambierà.

L’impatto di Michael sulla squadra e sulla lega è devastante ma a Chicago non sono ancora pronti. I Bulls sono Michael Jordan, devono diventare una squadra. Lo sa anche lo stesso Michael che durante una delle prime notti in ritiro vuole entrare nella stanza dei senatori. Non è gente proprio raccomandabile: Buffa racconta che hanno messo degli asciugamani sotto la porta, in modo da bloccare i suoni che vengono dalla camera. Forse anche i fumi. Jordan, un rookie, viene respinto. Ribussa e dice: “Apritemi, perché io sono quello che vi tirerà fuori da questa palude tecnica in cui vi trovate”.

Il parallelo con Higuain è improprio, in questo caso. Perché il Napoli che acquista l’argentino è una squadra che viene da un secondo posto in classifica, ed è un club in ascesa sui radar del calcio europeo. Proprio per questo può permettersi di suonare al campanello del Madrid e chiedere del Pipita. Che a sua volta è tutto meno che un rookie ma si presenta in Italia come calciatore con un passato vincente e un futuro di promesse. La storia dell’impatto, poi, è in realtà paragonabile a questa stagione. Almeno da ieri pomeriggio, ovvero da quando il Napoli ha calato le carte e si è dimostrato ancora non pronto alla vera lotta per lo scudetto. O, almeno, a giocarsela fino in fondo pari a pari coi giganti. Higuain quest’anno ha realizzato 30 gol nel solo campionato. L’ha fatto non da solo, come Jordan, ma per una splendida alchimia a metà tra le sue doti e una squadra che ha saputo inglobarle e valorizzarle. I 24 gol del primo anno e i 29 del secondo raccontano la storia di un grande attaccante. I 32 totali di quest’anno, a inizio aprile, dicono invece di un dominatore assoluto. Uno come Jordan, insomma. E gran parte del merito va a Maurizio Sarri.

Qui il parallelo che ci fornisce Buffa diventa più calzante. Perché c’è un uomo, nel destino di MJ, che in qualche modo gli insegnerà a vincere. Imparando insieme a lui, e a sua volta come, si fa. Si chiama Phil Jackson, è un allenatore di basket ma soprattutto una persona rara. Diciamo anche unica. L’avvocato milanese racconta che i primi Bulls di Jordan, finché non c’è Jackson, arrivano sempre a un passo dal vincere. Ma non ce la fanno. E poi racconta di Micheal che, a ogni aereo che lo riporta a casa dalla sconfitta a un passo dall’Olimpo, piange. Sì, piange. Vi ricorda qualcosa? Poi, come detto, l’arrivo di Jackson. Che è un po’ un Sarri dell’Nba: al colloquio con il presidente dei Bulls, si presenta con camicia a fiori e cappello di paglia. Non proprio la tuta acetata col kappone di Sarri, ma siamo lì.

A questo punto, la storia diventa familiare. O forse no, perché il primo titolo dei Bulls, che nell’Nba si chiama anello e si festeggia fumando un sigaro grosso così, arriva quattro anni dopo l’arrivo di Jackson che a sua volta è arrivato tre anni dopo Jordan. Ora, come dire: tempi e distanze dello sport europeo, soprattutto quelli del calcio italiano, sono assolutamente diversi rispetto a quelli del basket americano. Non è questione di modelli economici o di sviluppo, quanto semplicemente di etica e concetti sportivi troppo diversi. Però, ragioniamo insieme. Su quanto sta avvenendo ora, su quanto avvenne nell’Illinois una trentina di anni fa. 

Proprio nell’anno dell’arrivo di Jackson, il proprietario dei Bulls ha messo in squadra Scottie Pippen ed Horace Grant. Ovvero il secondo e il terzo violino di Jordan, quelli che lo condurranno alla grandezza. Una crescita graduale, corporata, armonica. Lenta, ma costante: 50-32 il primo anno, con eliminazione in semifinale di Conference; 47-35 il secondo anno, con eliminazione ancora in semifinale di Conference; 55-27 il terzo anno, con sconfitta nella finale di Conference, contro i fortissimi Detroit Pistons. E poi, l’anno di grazia 1990/91: 61-21 in regular season, e l’anello strappato ai Lakers in una finale senza storia (4-1). I Lakers di Magic Johnson, che avevano vinto l’anello nel 1987 e nel 1988 e avevano raggiunto la finale nel 1989. La squadra che possedeva la Lega Nba. Dire “una” Juventus non è poi così azzardato, no?

Assonanze, coincidenze, familiarità. Questa storia bellissima somiglia molto e poco insieme a quella del Napoli di Sarri, una splendida macchina che si è inceppata (solo) a Udine e si è dimostrata non ancora pronta per vincere davvero. Chi scrive non condivide in toto quanto segnalato stamattina da Del Checcolo, perché dire che al Napoli manchino i Pippen e i Rodman è quantomeno ingrato verso chi, numeri alla mano, sta disputando una stagione da favola. Insigne, Jorginho, Hamsik. Il Napoli c’è, solo che non è ancora pronto. L’unico che forse lo è per davvero, per doti di diritto divino o per attitudine alla vittoria, si ritrova a piangere in uno stadio friulano dopo un’espulsione non saprei quanto discutibile, sicuramente non scandalosa. E noi stiamo contestando, amareggiati, tutto questo. Una squadra che sfiora lo scudetto al primo anno di progetto. Che ha scoperto come poter essere grande e ci ha provato, grazie a un campione e a un geniale stregone della panchina. Solo che forse è ancora presto.

Higuain è come Jordan, per questo Napoli. E Sarri può essere come Jackson, per Higuain e per questo Napoli. Devono crescere insieme, far crescere insieme questa squadra intorno a loro che ne sono gli assoluti centri di gravità. Se i Pippen non sono ancora tali, possono diventarlo. Le potenzialità ci sono tutte, bisogna solo saper aspettare. Il Napoli vincerà quando sarà davvero pronto a farlo.

Ovvero, quando Jordan imparerà che anche Michael Jordan, da solo, non può vincere. Glielo ha insegnato Jackson che nel frattempo ha imparato come si fa. Ce lo racconta Buffa, ed è un colpo al cuore: in un timeout durante l’ultimo quarto dell’ultima partita delle Finals contro i Lakers, Jackson lascia fare ai vice il lavoro tattico. Prende Jordan, e gli chiede se si è reso conto di come i gialloviola marchino sul “secondo ribaltamento”, che non potrei mai spiegarvi perché non so cosa vuol dire. Jordan gli risponde dicendogli che lasciano libero Paxson, che è un suo compagno di squadra che nessuno ricorderà mai. Coach Phil gli dice così: «È libero? E allora dagli quella maledetta palla». Per la prima volta, qualcuno convince Michael Jordan a fare qualcosa insieme ai compagni di squadra. E i Chicago Bulls vinsero quell’anello Nba. E gli altri due subito dopo. E altri tre tra il 1996 e il 1998.

Sarri e Higuain stanno al Napoli come Jackson e Jordan stanno ai Chicago Bulls. Possono scrivere la storia, se vogliono. Devono solo scoprire come si vince. Hanno tracciato la strada per capire come si fa, devono solo imparare a percorrerla. Sorreggendosi a vicenda, fidandosi di chi gli sta intorno. È la squadra che vince. Perché neanche Maradona c’è riuscito con Dal Fiume. C’è stato bisogno di Ciccio Romano, che in proporzione non era nemmeno forte come Scottie Pippen. I tifosi, la stampa e gli avvoltoi dovrebbero capire tutto questo. E poi mandare un bigliettino di ringraziamento a Federico Buffa. Per avergli raccontato così bene la storia di chi ha imparato piano piano come si vince.

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