Per tutto il weekend vi abbiamo raccontato in diretta, pennellata per pennellata, il restauro del murale Maradona ad opera di Salvatore Iodice. Vi abbiamo parlato della colletta di quartiere grazie alla quale si è riusciti a restituire il mega Pibe de Oro, realizzato da Mario Filardi trent’anni fa sulla facciata di un palazzo in via Emanuele De Deo, al suo antico splendore. Ma c’è qualcun altro che, come noi, ha trascorso due giorni interi nello slargo ‘ncopp’e Quartier, che ha partecipato alla colletta e che, soprattutto, ha intenzione di rendere il ricordo di quei momenti indelebile nel tempo grazie a un docufilm che racconta, appunto, la storica impresa.
Parliamo di Fabrizio Livigni, napoletano doc e tifoso del Napoli, un filmaker, sceneggiatore, regista, aiuto regista, direttore di produzione, «ho fatto persino l’attore», racconta. È sua l’idea di realizzare – insieme ad amici romani gravitanti nel mondo del cinema – un documentario che racconti il restauro del murale Maradona: «L’ho fatto soprattutto per il mio attaccamento al Napoli e a Diego – racconta – Sono stati entrambi la mia principale arma di difesa in una vita da emigrante».
Fabrizio Livigni emigra a Roma quando ha sette anni: «Ero un ragazzino timido, con legami ed abitudini già consolidati; essere sradicato da Napoli è stato difficile». Racconta che la sua vita a Roma, soprattutto negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, è stata segnata dalla discriminazione: «I bambini sono cattivi, a volte, mi chiamavano “er Napoli”. Avevo bisogno di uno scudo e il mio eroe si chiamò Maradona». Dopo trent’anni a Roma, quattro anni fa, in un periodo di stasi lavorativa e nel pieno della crisi, Fabrizio decide di tornare a Napoli, dove la famiglia ha mantenuto la casa di proprietà. Lo abbiamo incontrato ai Quartieri Spagnoli, nel posto in cui abbiamo diviso due giorni di vita e un’esperienza indimenticabile.
Come ti è venuta l’idea di girare un docufilm sul restauro del murale?
«Leggendo l’articolo del Mattino dell’11 settembre scorso, in cui si raccontava dell’iniziativa per il restauro e della colletta di quartiere intrapresa per realizzarlo. Conservai la pagina e misi da parte l’idea fino a quando, a dicembre, lessi l’articolo del Napolista in cui si parlava di Salvatore Iodice e capii che era arrivato il momento di agire. Per la mia vita, e per l’importanza che hanno, per me, il Napoli e Maradona».
Hai partecipato anche tu alla colletta di quartiere. Come?
«Frequento da anni il San Paolo e allo stadio ho solidificato i rapporti con un gruppo di amici che piano piano si è allargato fino a comprendere cinquanta persone circa. Ci siamo dati un nome, Balconata Zerazzero, magliette con il nostro logo e una pagina Facebook. Gente di tutte le estrazioni sociali che vivono assieme la passione per il Napoli. Quando lessi della necessità di Salvatore di trovare soldi per realizzare il murale pensai che l’idea potesse piacere alla Balconata e così è stato: in due sole partite, tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio, abbiamo raccolto circa 300 euro. La vera anima della festa è stato Stefano Chines, il presidente, ha diretto lui la colletta. Si è trattato di un’iniziativa di cuore. La grandezza di Maradona, quello che ha rappresentato per Napoli, è sempre difficile da spiegare».
E così sei andato da Salvatore…
«Sì, grazie a Fabrizio, l’unico della Balconata nato ai Quartieri Spagnoli. È stato lui a farmi da tramite con Salvatore».
Avevi già chiaro il tuo progetto?
«Quando ho parlato con Salvatore sapevo solo che dovevo recuperare l’idea letta sui giornali e che volevo farlo dandole il taglio di un documentario. Mi sono messo a studiare tutto il materiale audiovisivo che ho trovato sui Quartieri Spagnoli, ma non c’era molto. Ho cominciato ad andare in giro nei Quartieri prima di Natale per conoscere il posto. L’idea definitiva, però, mi è venuta in corso d’opera …».
Chi produrrà il docufilm?
«Redigital, una produzione di Roma. Amici che hanno partecipato a progetti e produzioni di impegno sociale. Sono loro che mi hanno fornito macchine e operatori».
La data del restauro si è saputa con pochissimo anticipo. Come hai fatto a organizzare la troupe che veniva da Roma?
«Per avere la disponibilità dei ragazzi mi mantenevo sul vago circa il periodo in cui si sarebbero svolti questi due giorni di guerriglia filmica. Intanto cresceva anche la tensione di Salvatore, erano mesi che stava dietro a questa cosa. Mi ero impegnato anche con i ragazzi che avevano partecipato alla colletta, come lui si era impegnato con la gente del quartiere che si era fidata di lui. Ma dovevamo aspettare la gru, il Comune. È stato un periodo di tensione alle stelle. Quando Salvatore finalmente mi ha comunicato la data, la tensione si è liberata. Eravamo pronti».
Hai detto che l’idea definitiva per il documentario ti è venuta in corso d’opera. In che modo?
«Parlando con il mio co-sceneggiatore, Severino Iuliano. In una riunione su Skype gli spiegai lo schema che avevo in testa ma sentivo che mancava qualcosa che mi facesse vedere l’altra parte dell’universo, la faccia di Maradona. Fu lui a chiarirmi le idee, a far quadrare il cerchio. Mi disse che la prima domanda da farsi era chi fosse l’uomo che viveva dietro quella finestra abusiva. Severino, con il suo occhio esterno, ha focalizzato il punto cruciale del documentario, la finestra, il punto di contatto tra Salvatore, l’artista, e Ciro, colui che abita nell’appartamento la cui finestra ha strappato la faccia a Maradona. È stato il bilanciamento cosmico, il risultato di tutte le energie e persone meravigliose che vivono in questo quartiere. Una cosa taoistica. E il vero gesto divino è che Ciro ha detto di sì. Il co-protagonista ha accettato il flusso di energia aprendo la finestra, anzi, in questo caso, chiudendola».
Da qui l’idea del nome.
«Sì, “‘A faccia”. La faccia è quella di tutte le persone del quartiere, metaforizzata da quella di Maradona dipinta sulla finestra di Ciro, il proprietario attuale della casa. Il film sarà composto da immagini di Salvatore e del pubblico che assiste al restauro. Fino alla fine non si capirà a cosa sta lavorando Salvatore. Si vedrà solo che sta facendo qualcosa sulla parete del palazzo. Si vedranno dettagli, pezzetti di parete e di colore e tutto intorno si sentiranno i dialoghi e i rumori di fondo. Si vedranno le persone che sono passate di là, che si sono fermate, hanno chiacchierato, parlato con Salvatore: erano tutti col naso all’insù, quello che aspettavo di inquadrare. Avevo bisogno di creare la sospensione tra Salvatore che sta facendo qualcosa e la gente che si chiede cosa stia facendo, che guarda in alto e sorride».
Che attrezzature avete usato?
«Due macchine dello stesso formato, due Black Magic, quelle che danno il tipo di immagine del 16 mm, il taglio documentario, con ottiche differenti. È stato un safari, una caccia alle immagini delle cose che accadevano nella piazza».
Da chi è composta la troupe?
«Severino Iuliano, sceneggiatore; Gianluca Sanseverino, direttore della fotografia; Mauro Berti, scenografo innamorato di Napoli: il titolo del docufilm nasce da una sua intuizione. E poi Elena Álvarez, la fidanzata di Severino, montatrice: è una spagnola di Maiorca, si è trasferita in Italia da pochissimo ed è venuta piena di entusiasmo. E Beatriz, la mia compagna, brasiliana di Rondonopolis, nel Mato Grosso. Il cinema è un lavoro sociale, come diceva Rossellini: ho bisogno di persone per sviluppare le idee, ho bisogno di contatti, scambi, anche se di indole sono un orso».
Per girare il film siete entrati praticamente in tutte le case del circondario. Come avete fatto?
«È stato tutto improvvisato. Vedevo una signora dietro la finestra e chiedevo come si chiamasse, spesso sono stati proprio gli abitanti del quartiere a citofonare per noi e a farci salire. Siamo andati a ruota, ci siamo adeguati al flusso che ha guidato la nostra mano. È stato come fare birdwatching, solo che lì ti apposti dieci ore in attesa che accada qualcosa, qui devi andare dietro a tutto quello che succede. Abbiamo visto delle bambine che si affacciavano dal balcone del palazzo di fronte, abbiamo chiesto di salire e ci hanno accolti. Una serie di rimbalzi da una casa all’altra. La signora del palazzo di fronte mi ha anche permesso di mettere alla sua finestra la GoPro per fare il time-lapse, il sistema che scatta una foto ogni tot secondi».
Qual è stato, se c’è stato, il momento più brutto dei due giorni sul campo?
«Il carosello di mezz’ora con il pazzariello e il sindaco. Ha macchiato lo spirito vero dell’esperienza. È stata un’invasione di confini morali».
E quello più bello?
«L’applauso finale, il coro. Speravo che accadesse. Quando ho visto le donne affacciate ai balconi e in piazza e quell’unico bambino con il pallone tra i piedi, ho capito che avevo tutto quello che mi serviva per la chiusura, la punteggiatura finale. Uno dei momenti più intensi insieme a quello in cui gli abitanti del quartiere si sono mobilitati con il flex. C’è una scena che riprende le scintille della sega elettrica mischiate alle pitture usate da Salvatore. E poi sono riuscito a riprendere la piazza che si svuotava, alla fine del restauro, una sequenza perfetta».
C’è qualche personaggio del quartiere che ti è rimasto più impresso?
«La signora Mena, forse, e tutti i parenti di Mario Filardi. Ho sentito pienamente l’atmosfera del posto, le energie totalmente positive dietro questa esperienza, dall’entusiasmo dei miei amici dello stadio alle persone che erano dietro a Salvatore in tensione per questa cosa. Tutto si è incastrato alla perfezione».
Quando è calata tutta la tensione accumulata?
«Nel pomeriggio di sabato, verso le quattro e mezzo. In un momento di stanca della piazzetta, per la prima volta mi sono acceso una sigaretta e ho guardato il murale. Mi sono accorto che stava accadendo veramente, che l’immagine era a metà, si stava realizzando. È stato un momento di grande felicità. Un altro motivo di grande gioia è che Maradona ha avuto notizia del murale…».
Come veicolerete il docufilm? Chi lo potrà vedere?
«L’obiettivo è la circolazione nei festival come il Napoli Film Festival, nei concorsi, in qualche festival internazionale europeo. Mi piacerebbe arrivare ai festival che hanno mercato, come quello di Toronto. All’estero c’è interesse anche commerciale per il genere del documentario, in Italia meno».
Avete accumulato circa venti ore di girato: che durata avrà il documentario?
«Sarà fatto in due versioni: una standard, di 50 minuti, e un’altra di 25. Voglio girare altri inserti del quartiere, raccontare altre esperienze, alcune delle storie che ho letto sul Napolista».
Non è la tua prima volta alle prese con Maradona…
«No, infatti. Con Severino Iuliano e con Alessandro Giulietti abbiamo preparato una sceneggiatura dal titolo “Il Gran Finale/Operazione Maradona”. È la storia di tre vecchietti sfigati che vivono alla Sanità, ognuno con la sua storia e i suoi guai, umiliati dal camorrista del posto, Tonino Rock ‘n’ Roll. A Napoli arriva il museo itinerante di Maradona, con trofei e maglie e viene rubato il pallone d’oro di Maradona, ma i vecchietti scoprono che il trofeo è stato rubato dai camorristi per chiedere il riscatto ai Lloyds di Londra. È una sceneggiatura tutta in dialetto napoletano e la cosa bella è che nessun produttore napoletano ha voluto realizzarlo ma il film ha vinto il premio come migliore sceneggiatura al Baff, il Busto Arstizio Film Festival…».
Mentre sto per salutarlo Fabrizio mi ferma: «C’è un altro movente fondamentale per cui voglio che questo documentario abbia successo. Voglio andare in televisione ospite della trasmissione sportiva sul Napoli su Canale 21. È uno show dal minimalismo sovietico. Voglio far morire d’invidia i miei amici», sorride.