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De Canio, il taciturno che sfiorò la promozione nonostante Corbelli e Ferlaino

De Canio, il taciturno che sfiorò la promozione nonostante Corbelli e Ferlaino

Nello sport come nell’amore, dalla prossemica e dal tono di voce si capisce tanto. Due settimane fa il Napolista ha ricordato come Novellino con i suoi modi decisi fosse riuscito a dare una sveglia all’ambiente depresso di Napoli e alla fine arrivò alla promozione in serie A.

Con Novellino, Gigi De Canio ha in comune la cultura del lavoro, il viso spigoloso e un anno di passione alla guida del Napoli, in serie B. Non certo la fumosità. Come Novellino, De Canio torna in A dopo una lunga assenza e, alla guida dell’Udinese, ritrova quasi subito gli azzurri.

Lucano di Matera, De Canio giunse a Napoli dopo una carriera spesa quasi tutta al centro-sud. Unica eccezione: proprio Udine. Con i friulani aveva avuto una discreta esperienza durata un anno e mezzo, con soddisfazioni anche oltre i confini nazionali: nella prima stagione era arrivato agli ottavi di Coppa Uefa, dopo aver fatto fuori il Bayer Leverkusen di Ballack.

A Napoli De Canio arrivò in punta di piedi, come uno che non voleva dare troppo fastidio. Sempre composto, mai sopra le righe, parlava in modo calmo e pacato. Corbelli e Ferlaino lo avevano chiamato per rimediare ai disastri dell’anno precedente, quando insieme riuscirono a smantellare il gruppo costruito da Novellino, comprando tanti buoni giocatori che però non divennero mai una squadra. E per questo finimmo in B.

La diarchia manifestò subito evidenti scricchiolii e le campagne acquisti erano emblema di questa schizofrenia. Tanto per fare qualche esempio, perdemmo alle buste uno dei migliori della promozione, Oddo, per soli 200milioni e pochi giorni dopo il Milan lo vendette al Verona per 7 miliardi. Zeman cominciò il campionato senza un terzino sinistro e Mondonico spesso doveva pescare fra le giovanili per trovare un centrale di difesa. Per precauzione, a De Canio ne comprarono 3 (Bonomi, Villa e Luppi) ma si dimenticarono di dargli un attaccante che la buttasse dentro, tanto che, con Stellone infortunato, spesso in attacco giocavamo con Graffiedi e Rastelli.

Eppure De Canio non protestava. Le sue interviste erano tutte a bassa voce, come uno che vorrebbe urlare ma è troppo educato per farlo.

Pochi giorni fa, al Messaggero Veneto, l’attuale allenatore friulano ha tirato fuori un rospo che si teneva dentro da un po’: «Corbelli e Ferlaino mi avevano prospettato un programma sportivo molto importante e io ne ero lusingato. Pochi giorni dopo la firma del contratto, però, capii che tutte quelle premesse e promesse non esistevano. Corbelli fu arrestato, Ferlaino si fece da parte, io restai l’unico punto di riferimento. E a causa dell’alluvione andammo a giocare in tutti i campi della Campania».

Anche a causa di questo lungo girovagare, il Napoli di De Canio difettò in continuità, soprattutto nella prima parte di stagione. Ma in generale quel campionato fu caratterizzato da un saliscendi che nemmeno le montagne russe: filotti positivi si alternavano a filotti negativi senza una apparente spiegazione. Ogni qual volta la squadra sembrava sul punto di piazzare l’allungo decisivo, arrivava la scoppola, che deprimeva calciatori e ambiente, dalla quale ci si metteva qualche settimana per riprendersi.

Nel complesso il Napoli non giocava male: De Canio aveva ideato un modulo con difesa a 3 che però sapeva trasformarsi a 4 in corso d’opera. In avanti c’erano sempre almeno 3 giocatori offensivi e sulle fasce gli esterni spingevano parecchio. La rosa però era vecchia e logora e della stagione di serie A erano rimasti gli acquisti peggiori (Husain, Sesa, Moriero). Con tanti stranieri in giro con le nazionali e tanti infortuni, il mister era costretto a rifare la formazione daccapo ad ogni partita.

Dopo il promettente inizio (vittoria a Marassi col Genoa con doppietta di Stellone), cinque gare senza vittoria (fra le quali una scoppola a Modena), poi De Canio tirò fuori dalla panchina un certo Montezine facendo sedere in panchina un po’ di senatori e vincemmo a Terni, a Padova col Cittadella e a Bari. In casa però, complice il San Paolo inagibile, non si vinceva mai… la prima gioia arrivò a dicembre col Palermo, dando il “la” ad un filotto di 7 vittorie in 9 gare, fermato a Vicenza dall’ex Schwoch e dal futuro azzurro Christian Maggio che ci imposero il 2-1 in uno scontro diretto. Da qui altro periodo nero (6 gare senza vittoria) fino al 30 marzo, quando il successo di Marassi con la Samp diede la scossa alla squadra, che arrivò allo scontro diretto con la Reggina facendo 12 punti in 4 gare.

Davanti a 70mila tifosi, avevamo l’occasione del sorpasso che ci avrebbe permesso di entrare per la prima volta in zona promozione. Savoldi ci bruciò subito in contropiede. Vidigal pareggiò di testa. Rastelli sbagliò l’impossibile. Addio sogni di gloria… e di nuovo depressione: delle restanti 5 gare riuscimmo a vincerne solo una, cestinando di fatto la rimonta.

De Canio andò via senza rimpianti. Per noi si annunciavano tempi bui: la maglia a strisce, Colomba, Scoglio, ancora Colomba, poi Agostinelli, i gol di Dionigi per non retrocedere in C, Naldi, il fallimento… e il resto è storia nota.

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