I primi sintomi da cotta adolescenziale sono comparsi durante Napoli-Juventus. Li ho riconosciuti subito: bocca aperta, occhi sgranati e commento entusiastico, a ogni sua giocata. Poi venne la serata trionfale di San Siro. Il settore ospiti, nell’altissimo olimpo del terzo anello, fu un carnevale azzurro e di Rio fuori stagione. Mentre il Napoli teneva la sua lezione, io guardavo il campo e avevo occhi solo per lui. Anche da lassù. Infine la certezza, durante il secondo tempo di Napoli-Fiorentina. Che è uno show di intensità, palle rubate e poi rigiocate sempre bene. Lo scoprii e lo confessai, finalmente: mi sono innamorato di Allan. Oggi, a cose fatte, posso dire che il nostro amore è come quello del terzo anno di liceo. Quello ritardatario, lento, che dopo due anni ti accorgi che quella seduta davanti non è proprio così cozza, così acida, così stupida. Mentre te ne stai rendendo conto, però, è troppo tardi. Ci sei già dentro.
Nel caso del mio amore per Allan, la colpa di questo ritardo da teenager è anche un po’ sua, di Allan Marques Loureiro da Rio. Dire sua, in questo caso, vuol dire (anche) del Napoli. Ci hanno messo un po’ di tempo a conquistarmi, tutti e due. Allan a Napoli, infatti, ha una storia parallela a quella della squadra di Sarri. Entrambi sono partiti piano, lentamente, ingolfati in una condizione fisica rivedibile e da un modulo di gioco forse estraneo, sicuramente da metabolizzare. Le prime esibizioni di Allan, anche di quell’Allan che segna a Empoli, raccontano di un giocatore pesante, macchinoso, quasi annaspante. I concetti sono quelli giusti, si vede, ma si vede anche che applicarli con la giusta intensità è un problema. Alla squadra e ad Allan manca ancora il fiato.
Poi la primavera, tempo d’ampre. Che arriva piano, è roba step by step e a dirlo sono i numeri. Il mediano brasiliano è cresciuto un gradino per volta fino alla rivelazione definitiva, sua e del Napoli. Il primo Allan, quello visto contro Sampdoria ed Empoli, mette insieme due interventi difensivi e una palla intercettata in 147 minuti di gioco. Il secondo Allan, quello carburato a dovere, ha all’attivo sei tackle riusciti nella partita contro la Juventus e altri cinque palloni recuperati e tre contrasti vinti nella sola ripresa della sfida contro la Fiorentina. Allan è un diesel con una struttura particolare, e ha trovato in Sarri un allenatore che ha saputo gestirne l’esuberanza atletica. Attravero un inserimento graduale in campo, tramite fiducia e minutaggio massimali. Tutte cose necessarie per oliare i meccanismi di un fisico tozzo e gonfio, che ingrana solo col tempo e solo giocando. Del resto, non è un caso che l’ex Udinese abbia disputato da titolare l’intero primo ciclo di partite, da Napoli-Sampdoria fino a Genoa-Napoli, saltando solo i primi sessanta minuti del match interno col Palermo. Allan ha avuto bisogno di giocare per entrare in condizione. Andava aspettato, ma l’attesa non è stata proprio vana.
La parabola similare tra il numero cinque e la sua squadra si è confermata anche nella trasferta di Marassi: Allan è apparso meno lucido, un po’ affaticato, esattamente come il Napoli. Lo dicono anche le statistiche, tornate “umane”: un solo tackle riuscito in ottantadue minuti per l’ex Udinese, zero gol per un Napoli comunque padrone del campo. Allan esce che è stremato, e non è titolare per la sfida contro i danesi del Midtjylland al San Paolo. Entra in campo quando il risultato è già acquisito, perché il suo è un turnover ad personam, dedicato, ed è già stato sperimentato contro il Palermo: avvio in panchina e poi secondo tempo in mediana, per non perdere brillantezza. Allan deve riposare, ma non troppo. Perché c’è bisogno di lui e lui ha sempre bisogno di giocare.
Allan rappresenta e impersona questa squadra di Sarri, l’abbiamo detto e ridetto e spiegato. Innamorarsi del Napoli, per il sottoscritto, è stato innanzitutto innamorarsi di lui. Perché il suo rendimento influenza quello dell’intera squadra e viceversa, sì, ma anche e soprattutto perché Allan è il calciatore-novità dell’organico azzurro. Quello che serviva ed è sempre mancato, soprattutto nel biennio di Benitez e nelle ultime due stagioni di Mazzarri. Allan è, finalmente, il centrocampista che utilizza benissimo la sciabola, bene il fioretto, alla grande la testa. Possiede la famosa e imprescindibile garra, i piedi educati, la giusta attenzione tattica. E, soprattutto, sa essere sicurezza assoluta. Fateci caso, io l’ho già fatto: Allan insegue l’avversario, alla ricerca della palla. La recupera con la forza, la tiene vicina, e si fa una fatica immane a portargliela via. Poi non la getta mai, preferisce la giocata pulita per il compagno meglio piazzato. Infine corre a farsi vedere, a proporsi per l’azione successiva. Sempre. Un martello continuo, infinito.
Quando fa queste cose, quando le fa al massimo, io non riesco a contenermi. Lo avrete capito leggendo, ma posso assicurare che allo stadio o davanti alla tv sono anche peggio. Grido proprio, come per un gol di Higuaín. È più forte di me, ed è amore senza se e senza ma. Forse un po’ postadolescenziale, solo calcistico, ma pur sempre amore. Perché al cuor non si comanda. E ad Allan non si rinuncia più.
Alfonso Fasano