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Freud spiega perché dobbiamo amare Koulibaly anche con i suoi errori

Freud spiega perché dobbiamo amare Koulibaly anche con i suoi errori

“Dove eravamo rimasti?”

Il cucchiaino del dottor Freud rimesta velocemente, sempre in senso orario, il caffè nero appena versato nella tazza.

“Vede, professore, l’ottimismo di quest’anno attorno al Napoli deriva dall’aver finalmente smesso di osservare impotenti gli stessi errori, quelli ripetuti mille volte, con tempi e dinamiche sempre identici e costantemente dettati dai medesimi attori: giocatori che vi incappano sembrando attendere di proposito l’occasione migliore per costruirsi pian piano la gabbia nella quale morire prigionieri, concedendo all’avversario marcato lo scatto fatale, provando il dribbling destinato a non riuscire, smarrendo la palla che il bomber spingerà nella propria porta incustodita, lasciando noi tifosi impietriti ad imprecare contro il cielo e contro gli uomini. Oggi sembrano finalmente lontani i giorni in cui ci chiedevamo, sconcertati, come fosse possibile giocare partite a decine e decine di volte ripetere l’identico sbaglio commesso poche ore prima su un altro campo, in un’altra partita. E ci sforzavamo di credere, come dei poveri derelitti, in una qualunque spiegazione plausibile – la disattenzione dei singoli, le lacune tecniche, la mancanza di carattere, la povertà della fase difensiva (termine un po’ oscuro ma molto à la page) o la più colorita ma ancora meno chiara cazzimma, insomma qualunque cosa, professore, qualunque cosa non fosse riconducibile esclusivamente alla improvvisa inspiegabile pazzia di un giocatore. Oggi questa cosa indefinibile il Napoli ce l’ha, ringraziando il cielo, e non sbaglia più un colpo. E tutto questo ci rinfranca.”

Siamo come sempre sul lettino. Il dottor Sigmund Freud ha sorseggiato lento e intenso il suo primo caffè. Ci ascolta e ci parla di una sua opera, scritta quasi un secolo fa, in un periodo non semplice della propria esistenza, uno di quei periodi in cui osservi retrospettivamente le cose fatte e scritte in vita e cerchi di risistemarle dotandole di qualche ambizioso slancio verso il futuro, per farle durare. “Si intitola Al di là del principio di piacere” dice quasi sottovoce “e mi è valso più critiche che elogi. Forse non la riscriverei. Non avrei la pazienza di ascoltare le lamentele dei lettori che non hanno gradito che un uomo rigoroso ed analitico come me potesse risultare oscuro” aggiunge, con un qualche rammarico.

“La ciclicità del calcio e della vita personale e sportiva di chi ne è parte è tra gli aspetti più mistici di questo sport. Non va buttata via. Non va vista come un refuso di cui sbarazzarsi per diventare perfetti. Perché niente è più importante, nel calcio, degli errori – dei motivi per cui essi si manifestano, delle modalità che seguono per riproporsi sotto vesti diverse e, cosa più cruciale di tutte, dell’eventuale senso che c’è nel dire che essi si possano effettivamente superare.”

“Il patrimonio umano e psicanalitico del Napoli è rappresentato al suo meglio, oggi, da Kalidou Koulibaly. Egli è il vostro vero tesoro di San Gennaro, in questo momento. Per cui prenderò a prestito la sua storia calcistica con la casacca azzurra per intrecciarla col nostro percorso analitico, perché in lui, più che in ogni altro giocatore napoletano, risulta evidente la coabitazione di lucidità mentale e potenza fisica cristalline con improvvisi momenti di inatteso ed abissale oblio. E l’intrecciarsi nel giocatore senegalese di queste due pulsioni contrastanti in modo così ripetitivo e metodico – quelli che Sarri chiama i suoi cinque minuti di cazzate una dietro l’altra – è quello che io chiamo nel mio libro la coazione a ripetere: una pulsione strana, inaspettata, che ci porta a diventare prigionieri volontari, ci spinge violentemente a creare tutti i presupposti necessari a provare un dolore, ripercorrere quanto ci fa star male, ancora e ancora, ripetutamente, in modo circolare, fino a far diventare questa ripetizione ciclica un tratto essenziale del carattere della nostra persona. Nel mio libro ho scritto che questa pulsione è percepita come un potere demoniaco, che appare muoverci dall’esterno, se non fosse che siamo noi stessi ad allineare mattone dopo mattone del carcere dove ci stiamo murando vivi. Proprio come fa il giovane KK quando, dopo una serie di chiusure perfette e tempestive, prende palla e si chiude inesorabilmente e senza apparente necessità in un angolo del campo dal quale sa che non potrà uscire se non osservando l’avversario che lo sovrasta e lo lascia stravinto ed umiliato sul terreno di gioco. Questa pulsione è quella che ho chiamato pulsione di morte.”

“Come accade che si rimanga affetti da questo morbo, professore?”

“Beh, la mia idea è che tutti ne siamo affetti: tutti viviamo in questa direzione ciclica, e proprio per questo lo spettacolo del calcio ha una eccezionale valenza psicanalitica – pari a quella del teatro. La coazione a ripetere ha origine da uno spavento, ovvero lo stato di chi si trova di fronte ad un pericolo inaspettato e ne viene colto di sorpresa. In KK il trauma ha quasi una data precisa, molto ben descritta da Massimiliano Virgilio: l’errore grave commesso contro il Cagliari lo scorso anno segna la nascita del fantasma calcistico del difensore partenopeo. Il dribbling su Ibarbo. Provato. Non necessario. Mancato in pieno. E causa di un pareggio drammatico per una intera squadra. Quello è l’inizio di un dolore destinato a non morire nel giocatore, e della necessaria lotta che dovrà seguirne. KK gioca molte altre partite dopo quella in casa contro i rossoblù, ma in realtà scende in campo sempre e solo per superare, almeno una volta, in un contrasto, Ibarbo. La coazione a ripetere di KK – i suoi cinque minuti di cazzate – sono l’esorcizzazione di una paura che non lo ha mai abbandonato, e mai potrà farlo, perché’ gli è costata fischi ed umiliazione.”

“Gli allenatori con qualche esperienza sanno che, al momento del fischio d’inizio, ci sono undici uomini su di un manto erboso che andranno incontro ai propri novanta minuti di psicanalisi. E che la ciclicità degli errori che essi commetteranno non è evitabile, ma semplicemente un dato di fatto: per vincere, quegli errori vanno solo chiaramente individuati per poterne controllare e minimizzare gli impatti sulla squadra. Quando l’allenatore perde questo filo e rinuncia a lavorare su questa ciclicità, ha issato bandiera bianca e rinunciato ad essere maestro dei propri allievi. Lo scorso anno, a marzo, Benitez dichiara – neppure troppo velatamente – la fine della propria avventura in azzurro (che in termine tecnico si chiama, non causalmente, un “ciclo”) alle telecamere del post-partita Torino-Napoli, persa per un goal a zero. Con il suo consueto modo di comunicare per metafore, nel calcio che è sempre bugia, dichiara che è stanco di vedere sempre gli stessi episodi, e poi dice, in un italiano un po’ contorto ma efficace, ‘Sono stanco che non mi piacciono queste cose’. Qualcuno ha immaginato che il tecnico spagnolo si riferisse agli arbitri. Ma era alla ciclicità degli errori dei suoi che egli si riferiva. Ed è lì che Benitez ha deciso di smettere di cercare la pazienza per sopportare e far evolvere, se possibile, la coazione a ripetere dei propri giocatori. A Torino ha smesso di essere un maestro.”

Siamo sul lettino. In silenzio. “Scusi, professore, ma l’idea tetra che undici giocatori in campo siano mossi, tutti, indistintamente, dalle proprie pulsioni di morte, ci sembra contrasti decisamente con l’evidenza di un gioco spettacolare come il calcio, che dona gioia a milioni di persone attorno al mondo.”

Il Professore ci suggerisce, ancora una volta, di tralasciare le soluzioni semplici e troppo sceneggiatesche. “La storia di ciascun giocatore è la lotta cruenta per esorcizzare un errore. Lo è il rigore di Higuain, come quello di Roberto Baggio. Persino nella massima espressione estetica di questo sport, nel racconto epico del goal più spettacolare della storia del calcio, in cui un uomo solo piega la storia ai propri piedi in sessanta metri tramutandosi in un aquilone cosmico, le parole di Maradona mostrano una vena drammatica:

‘E’ il gol che ho sognato tutta la mia vita. L’ho fatto in un mondiale, ma prima di quel mondiale ho giocato moltissime partite, senza mai riuscire a fare quel goal. Nel ‘79 abbiamo giocato a Wembley, la cattedrale del calcio. Da metà campo faccio una giocata quasi uguale. E quando esce il portiere, alla stessa maniera di Shilton nel mondiale, calcio con l’esterno sinistro sul secondo palo. Quando ritorno mio fratello più piccolo mi dice ‘Perché’ non hai dribblato il portiere?’ Questo mi è rimasto come un reto del mio fratello più piccolo’

Il goal più bello del mondo è l’ultimo emendamento, anzi l’unica correzione ad una lunga serie di errori ciclici, vissuti sul campo e rivissuti nella mente, ricordati e tramutati in azioni, del più grande genio del pallone. Che si racconta in italiano ma usa lo spagnolo in un unico termine, quello cruciale – reto, la sfida quasi trascendentale che il mondo gli ha affidato e di cui il fratellino più piccolo si è fatto latore. Maradona salta cinque inglesi per rimediare una sola volta, in vita, ad un errore che lo perseguita finanche nei sogni.”

Sigmund Freud fa qui una pausa prolungata. Ma è solo necessaria a raccogliere il fiato necessario per chiosare:

“La critica alla mia opera è venuta specialmente dai miei colleghi. Che hanno visto nella parte finale di Al di la del principio di piacere una visione chiusa, ineluttabile ed inemendabile della vita: siamo tutti destinati a ripetere, in modo coatto, i nostri errori. E la terapia non può nulla. Beh su questo, ancora oggi, non ho molte risposte. Ma adesso, a differenza di quando scrissi quelle pagine, conosco il calcio. E ritengo che anche se la psicanalisi fallisse nello strappare l’uomo a questa pulsione che lo costringe all’eterno ritorno dell’uguale, esiste un modo per rimanere intrecciati nei propri errori eppure vivere questa condizione con classe. E questa possibilità è nell’arte. Se l’uomo vive l’arte, anzi si rende arte egli stesso – come ha fatto, con il calcio, uno sporco bassino di Lanús saltato, senza seguire le buone maniere, sul trono degli dei in Messico – allora pur non potendo redimersi, egli può almeno vivere i propri errori col sorriso dell’amore per la vita e il disprezzo per ciò che tenta di soffocarlo. Per cui, amate KK che cerca l’uno contro uno, che prova a saltare il centravanti avversario nella propria area di rigore, che evoca il proprio fantasma e lo sfida davanti a decine di migliaia di folli urlanti, davanti a voi, conducendovi dinanzi alle vostre paure. Amate i suoi errori. Come scriveva uno spirito eccezionale, nel mio stesso idioma germanico, qualche anno prima di me – e forse profeticamente già pensando a Kalidou Koulibaly:

‘Se un giorno o una notte un demone strisciasse dentro la più solitaria tua solitudine e ti dicesse: «Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello di polvere!”’

Il Professore ha chiuso gli occhi, come per meditare a lungo quelle parole, quasi come in una preghiera, e sembra sorridere per la prima volta. Poi li riapre all’improvviso, ci fissa e riprende:

“Dove eravamo rimasti?”

Il cucchiaino del dottor Freud rimesta velocemente, sempre in senso orario, il caffè nero appena versato nella tazza.
Raniero Virgilio

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