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Freud, Higuain e Gerrard: il valore di un abbraccio ma anche il potere della freddezza

Freud, Higuain e Gerrard: il valore di un abbraccio ma anche il potere della freddezza
Il Pipasarri, il mostro che ci tormenta da luglio

“Professor Freud, Sarri a bordo campo ha abbracciato Higuain che, dopo aver corso senza palla per chilometri ed essere tornato in copertura ad aiutare i compagni, ora offre in risposta un sorriso. Forse siamo alla svolta mancata negli scorsi anni, un uomo che sappia finalmente parlare al cuore di questi ragazzi!”

Stavolta abbiamo concordato un incontro in Galleria Umberto I. E’ mattina presto, ed il dottore ha appena scartato una calda sfogliatella frolla che – dice – gli ricorda le lunghe e pensierose attese all’Università di Vienna:

“Se non vi portasse a sottostimare tutti i fenomeni del mondo che vi circonda, la vostra vena melodrammatica incuterebbe quasi tenerezza. E’ pur vero che esiste un fondo di sceneggiata in tutte le manifestazioni umane, ma se bastasse abbracciare qualcuno per fargli saltare cinque giocatori a Varsavia prima di incollare la palla nell’angolo alto, più che a Coverciano gli allenatori dovrebbero andare a fare corsi di petting. In settimana ho letto l’intervista all’agente di Higuain – che è poi, manco a dirlo, suo fratello – il quale paragona le parole di Sarri a quelle del papà, ma soprattutto a quelle della mamma del Pipita. Eh, come aveva ragione quel tale delle vostre parti: tutti abbiamo una mamma, Cardone mio…”

Neppure la sfogliatella sembra aver scalfito la personalità coriacea del luminare austriaco:

“Agli strizzacervelli come lei piace sempre rendere le cose più complicate di quanto esse siano, Professore. Lasciatevi un po’ andare alla naturale magia delle cose. Cosa c’è di male nel ricevere parole che evocano quelle materne e sentirsi bene per questo?”

Ma Sigmund Freud non si scompone affatto e, dopo il breve attimo passato forse a cercare le parole giuste, risponde:

“Non si tratta di odiare la semplicità, ché richiede molto studio. Si tratta di saperla riconoscere ed apprezzarla, scartando invece, come ci siamo accordati dall’inizio, le soluzioni banali, che sono il pezzotto della semplicità.” Poi, passata la sfogliatella nella sinistra, sfila un volume dalla tasca destra del suo cappotto: “Sto leggendo My Story di Steven Gerrard, il leggendario capitano del Liverpool – che ha rilasciato anche una intervista sulla BBC circa il suo rapporto con Benitez descritto nel libro. Gerrard è un campione che ha attraversato tutto – l’umiliazione della sconfitta, il peso del privilegio nel portare la fascia di una squadra campione d’Europa, la difesa di colori che lottano da sempre per scrollarsi di dosso quella fastidiosa puzza di miseria. Ha un viso che non diresti mai completamente felice, piuttosto perso nell’intrico delle proprie debolezze. Alla tv britannica mostra di portare in sé un paradosso, che ha deciso di mantenere intatto – da campione quale è – pur non riuscendo a trovarvi soluzione. Dice: ‘La maggior parte dei miei giorni migliori al Liverpool li ho passati sotto Rafa Benitez. Stranamente, è l’allenatore che sento più distante tra tutti quelli con cui ho lavorato.’”

Ci arrestiamo di botto: “Professore, anche lei con questo sguardo rivolto al passato! Mangiamoci questa sfogliatella, dimentichiamo le retrospettive, e pensiamo al quattrotrétré che finalmente qualcuno ha avuto il buon senso e l’umiltà di usare per farci felici.” Ma non c’è verso di convincerlo, e riprende:

“Gerrard dice stranamente. Perché è un campione che sa cosa gli sia costata quella finale a Istanbul. Non ci sta a gettare tutto via per una stupida questione di categorie morali – quello lo fanno i teologi che non hanno mai usato calce e mattoni. C’è qualcosa di incongruo, odd direbbero gli inglesi. E’ come se si chiedesse: perché chi ti ha fatto vincere e reso un giocatore migliore non ti è vicino? Non ti abbraccia, non ti si lega, visto che l’istinto principale sarebbe quello di stringerlo a te? Perché questa ingiustizia che non si sana? Nel libro c’è questo passo:

‘Su un piano puramente umano preferisco un allenatore simpatico, come Gérard o Brendan, ma in termini calcistici non ho alcun problema a lavorare con un uomo più freddo. […] Non credo che a Rafa piacessi come persona. Non so perché, ma questa era la mia sensazione.’

“Qui egli riporta un passaggio interessante – almeno per uno strizzacervelli come me: il primo approccio tra Benitez e Gerrad avviene per interposta persona. E sapete chi? La madre. E’ la madre di Gerrad ad incontrare per prima il tecnico spagnolo. Perché tutti – come diceva sempre quel tale delle vostre parti rivolgendosi a Cardone -, tutti abbiamo una madre. E Rafa sceglie un esordio quantomeno inaspettato per cui, dopo essersi presentato, chiede alla genitrice del campione: ‘A Steven piacciono i soldi?’. A questo punto, se dovessimo inchinarci alla logica degli abbracci, qui scatterebbe il tema di Guapparia e il capitano del Liverpool si fionderebbe sullo spagnolo a difesa della propria mamma, come farebbe Cardone. Ma Gerrard non è Cardone, è uno che ha lavorato molto – ed il lavoro non si svende –, per cui non si arrende all’apparenza. E scrive: ‘Avevo capito che probabilmente stava cercando di scoprire cosa mi motivasse’. Questo è un passaggio cruciale che si fa fatica a comprendere al giorno d’oggi, in cui persino il Papa Francesco dice di essere deciso a rispondere con un cazzotto se gli tocchi la mamma. Il senso paradigmatico, metaforico, mitico di queste figure che abitano la nostra vita, si è perso nella salsa degli abbracci che risolvono. Mentre gli abbracci, di solito, non risolvono. Ma sentite ancora:

Avevo fame di conquistare un suo complimento – ma anche fame di fargli capire che aveva davvero bisogno di me come giocatore. […] Ha tirato fuori il meglio di me per questo suo gelo nei miei confronti. Forse, se fosse stato comprensivo e generoso, non avrei avuto quella spinta a dimostrare che aveva torto o a cercare di guadagnare il suo rispetto.

“Gerrard è un campione soprattutto perché sa cosa è il tempo, per un giocatore e per un uomo. Lo sa perché il suo lo ha attraversato e ne è stato a sua volta attraversato col medesimo furore messo in campo. Un giocatore è il risultato della propria storia e della storia del suo club:

‘I miei allenatori, negli anni, hanno avuto personalità differenti, propri stili di lavoro, ma mi hanno trasferito il medesimo semplice messaggio: essere professionisti, lavorare sodo e giocare per la squadra. Questi sono i tre valori che li accomunavano tutti’

“E questi valori, Gerrard, li chiama semplici. E lui se lo può permettere, proprio perché giungono al termine di un lungo percorso, riassumono un cammino esteso, impervio, insicuro, complesso, a volte indeterminato. Quello che chiamiamo la carriera. Un cammino in cui egli ha imparato anche ad aspettare prima di saltare a difendere la madre (con la quale confida di avere un legame assai stretto), perché attraverso questo distacco simbolico, anche dai propri affetti, egli ha individuato il limite verso cui deve muoversi per migliorare. Il limite e la distanza che possono aiutare, “An edge can sometimes help” come dice lui:

“Una relazione priva di emozioni e distante, con persone simili a Rafa Benitez e Fabio Capello, può a volte produrre maggiore successo.”

“Ah, Capello!” esclamiamo noi, mentre ormai la Galleria va popolandosi.

“Eh, Capello” risponde il Professore “A parlare in termini molto simili di Fabio Capello, qualche tempo fa, e’ stato un vostro conterraneo, Vincenzo Montella. Incontrando Capello ad una premiazione, col senno di poi, e con la propria storia di calciatore alle spalle, simile in alcuni tratti a quella di Gerrard – con il quale il giovane di Castello di Cisterna condivide lo sguardo mai compiutamente felice, ma anche il medesimo acume, probabilmente – confida, tornando ai tempi in cui Don Fabio lo teneva in panchina: ‘Oggi capisco che la gestione che aveva il mister era di grande livello. Ogni tanto torno indietro con la memoria, quando devo fare una scelta importante. E me lo ricordo.’ Ha imparato a fare l’allenatore capendo, dopo, che quei non-abbracci di Capello erano importanti.”

“Dunque cosa ci consiglia, dottor Sigmund Freud? Più distanza? Diffidare dell’allegria, proprio ora che iniziamo a divertirci?”

“Che sciocchezza. Non diffidate dell’allegria. Ma non sottovalutate il potere dell’incertezza, della frustrazione, finanche della tristezza – come persino un cartone animato come Inside Out, ultimamente, cerca di spiegare ai bambini. E non badate solo all’oggi, per spiegare tutto il mondo in un quattrotrétré. Sarri è il punto finale di una lunga storia. Egli ha ereditato una squadra provata – in entrambi i connotati di questa parola: provata nel senso di stanca, perché reduce da una stagione incostante, di inferni e paradisi troppo ravvicinati, chiusa in modo drammatico in una serata contro la Lazio; ma provata anche nel senso di sperimentata, capovolta, rigirata, cresciuta nei propri ostacoli, in cui quasi ogni giocatore ha imparato a cimentarsi in almeno un paio di ruoli, nella costante esplorazione dei propri errori. Ora è bene imparare a riscoprire la gioia a valle di queste prove, per poter vincere. E probabilmente Sarri lo sa. Ma non costringete tutto, ancora una volta, in una storia di tre righe, per farvela entrare in un tweet o uno status su Facebook. Il calcio non è né Guapparia, né Zappatore.

E ora, abbiate pazienza, prendiamoci il giusto tempo per mangiare questa sfogliatella.”
Raniero Virgilio

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