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Moby Dick e la regressione di Napoli alla lode del provincialismo

Moby Dick e la regressione di Napoli alla lode del provincialismo

Due giornate di campionato rispolverano sul campo buone premesse e vizi antichi, mentre fuori si preparano grandi manovre volte a dare il merito delle prime al presunto ritorno del Napoli alla saggezza calcistica di una volta, e a imputare i secondi ai disastrosi due anni passati, i cui strascichi post degenza pare siano duri a morire. Il tutto mentre si sviluppa un florilegio di commenti che, dopo il pericolo scampato della scellerata internazionalizzazione, si incentrano ora, più o meno esplicitamente, sul provincialismo odierno e le sue miracolose doti rigeneratrici.

Ora, per sgomberare il campo dagli equivoci, mi pare utile rammentare che essere provinciali non è mai stata una virtù. È, infatti, un limite. Sembra strano doverlo ribadire nel cuore della nazione che, nel suo dopoguerra, ha fatto assurgere l’ambizione a superare i propri confini a valore fondante di una intera società – nell’arte, nella politica, nella cultura – quando, nelle campagne analfabete ed eternamente segregate, le madri mandavano i propri figli a fare “gli esami di laura davanti ai più grandi scienziati del mondo” a costo di farli giacere tra le braccia peccaminose delle malafemmine di città (per poi scoprirle libere ed incoronarle donne del domani). Vale la pena rammentarlo nei giorni in cui giornali e televisioni cittadini e nazionali, probabilmente in un eccesso di realismo e superando per zelo e maniacalità persino le reali intenzioni della stessa società, si trovano intenti ad elevare al cielo l’Ara Provincialis.

Potrà sembrare strano ma questo è il ridimensionamento che si deve temere assai più di altri. Specie a Napoli, noto soggetto a rischio. Dalle campagne acquisti sbagliate, dalle fasi difensive sbilanciate, persino dai fallimenti e dai libri contabili ci si può riprendere anche velocemente, ma della convinzione che il provincialismo renda felici noi e i cittadini tifosi di domani si può anche morire all’improvviso.

Molti anni fa, mentre era intento a spiegare meraviglie e grandiosità nascoste nelle forme e nelle storie delle balene, Herman Melville scriveva quanto segue nel suo capolavoro Moby Dick:

Cosicché, quando d’ora innanzi vi descriverò minutamente tutte le singolarità e i concentramenti di potenza che covano per ogni dove in questo mostro smisurato, quando vi mostrerò qualcuna delle sue più insignificanti imprese di accoppamento, confido che avrete messa in disparte tutta l’incredulità ignorante e sarete pronti ad accettare tutto: che, se il capodoglio si sfondasse magari un passaggio nell’Istmo del Darien e mescolasse l’Atlantico col Pacifico, voi non alzereste un pelo delle vostre sopracciglia. Poiché se non riconoscete la balena, siete soltanto un provinciale e un sentimentale della Verità. Ma la Verità vera è una cosa che soltanto i giganti-salamandre affrontano: quante probabilità vi sono dunque per i provinciali?

Pare di sentire la risposta del genio americano: zero. Provinciali e sentimentali della verità non hanno scampo, perché non sono giganti abbastanza da raccogliere e lavorare per i grandi sogni.

Ora, di questa regressione alla lode del provincialismo la nostra città di sicuro non ha alcun bisogno. Soprattutto quando, a Napoli e non solo, sembra vivere una età dell’oro ogni sorta di incredulità ignorante, dalle decrescite felici ai ritorni ai fasti borbonici. Men che meno ce n’è bisogno nel calcio, che si è presentato ed ha lavorato a Napoli, spesso con indubbio merito, quasi come una inconsapevole avanguardia culturale cittadina contemporanea. È bene fare attenzione, dunque, perché le lodi pelose, che ascoltiamo e leggiamo, sulla genuina bontà della nuova direzione tecnica che baderebbe finalmente al sodo, intaccata dalle scorie ispaniche che provengono dal maligno, sono la classica cavalcata della tigre (di carta) che serve molto ed esclusivamente a chi la usa per crearsi un robusto salvacondotto in caso scatti il si salvi chi può: da una parte si alimenta la diffidenza contro tutto quanto metta in discussione le idee (spesso fasulle) che abbiamo di noi stessi e della nostra città, dall’altra ci si riserva la possibilità di giocare la carta dell’uomo di mondo che castiga l’errore commesso dalla società a puntare sull’allenatore di piccolo cabotaggio che non può certo capire la complessità di una “grande piazza”. Chi elogia il provincialismo e lo deifica fa semplicemente il proprio gioco, un gioco che giustifica i tanti paternalismi cui assistiamo: quelli dei presidenti che danno il buffetto ideale ai propri dipendenti che si fanno irretire dalla città rapace – e che sottile libidine sentirsi, sotto sotto, abitanti di una città rapace! O quelli degli addetti ai lavori che invece di pungolare il tifoso-cittadino, ponendolo di fronte anche alle sue responsabilità, gli sorridono comprensivi se diserta lo stadio o fischia i propri colori. Ed i paternalismi sono ostacoli, quasi mai sono trampolini di lancio.

Può darsi sia anche una questione di stazza. Probabilmente è richiesto un certo physique du rôle. Di sicuro, nel dubbio di questi tempi un po’ ambigui, meglio essere giganti-salamandre che sentimentalissimi provinciali.
Raniero Virgilio

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