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Altro che moduli, i destini del Napoli dipendono dai nostri riti anti-jettatori. È dimostrato scientificamente

Altro che moduli, i destini del Napoli dipendono dai nostri riti anti-jettatori. È dimostrato scientificamente

Apotropaico: come recita la Treccani, si tratta di “termine riferito a oggetto, atto, animale o formula che allontana o annulla un’influenza maligna”.

A dispetto di una formazione culturale razionalista ed illuminista, il mio essere tifoso, e tifoso del Napoli (circostanza che costituisce un’aggravante), ha finito per abbandonarsi completamente a pratiche apotropaiche senza provare un minimo di vergogna, anzi nobilitandone l’uso fino a considerare queste pratiche alla pari, se non più efficaci, di qualunque schema di gioco, di qualunque stato di forma dei calciatori, di qualunque modulo applicato dall’allenatore.

Ma quale 4-3-3 o 4-3-2-1? 

Ma voi credete davvero che il secondo posto conquistato da Mazzarri fu merito del suo famigerato 3-5-2 e non dei miei calzini spaiati indossati, quell’anno, ogni santa domenica quando giocava il Napoli?

E dove vogliamo mettere le soddisfazioni che mi ha dato, nell’anno della risalita in serie A, lo spostamento progressivo dei mobili del salotto con il televisore orientato verso Sud e il divano verso Nord, quando incontravamo una squadra del Nord, e viceversa quando ne incontravamo una del Sud? 

Non credo di esagerare dicendo che senza questo accorgimento tattico difficilmente avremmo conquistato la promozione.

L’apotropaicismo (credo di aver creato un neologismo e non so se verrà accettato dalla comunità etno-antropologica) è una delle più grandi risorse del tifo napoletano, è il vero ed unico “uomo in più” di cui disponiamo ed al quale dobbiamo tanti dei successi ottenuti nella storia della S.S.C.Napoli.

Altre tifoserie hanno cercato di imitare questa pratica, ma in maniera dilettantesca e senza un minimo di quel rigore, di quella dedizione, di quella, mi spingo a dire, professionalità che solo un napoletano possiede, da sempre, nel suo dna.

Nei due anni di Benitez io, rafaelita convinto, mi sono lasciato incantare dalle teorie sull’europeizzazione, sulla managerialità, sulla “scugnizzeria”, sul Napoli lab e su altre diavolerie astratte che nulla avevano a che vedere con la nostra cultura e che hanno in qualche modo fiaccato e indebolito la mia convinzione che una statuina di S. Gennaro messa al posto giusto davanti alla tv, potesse più di qualunque organizzazione societaria e di qualunque tentativo di internazionalizzazione.

Non che avessi abbandonato quelle pratiche magiche, ma le facevo senza convinzione, senza concentrazione, senza “cattiveria agonistica” sviato e confuso da questa ubriacatura di “modernismo”.

E i risultati, dei quali mi assumo tutte le mie responsabilità, purtroppo li abbiamo visti. 

Come in un flash-back, rivedo tutti gli errori che ho commesso: perché, ad esempio, con il Dnipro mi sono seduto al centro del divano, lasciando sulle fasce esterne Renato, a destra e Massimo, a sinistra, quando invece col Wolfsburg, dove avevamo vinto 4-0, io ero sulla fascia sinistra, Renato al centro e Massimo a destra?

E perché non ho insistito con Mimmo quando, per la decisiva sfida con la Lazio, mi aveva detto che non poteva essere dei nostri in quanto quella sera aveva una cena con amici? E si che ci sarebbe stato utile seduto dietro di noi un po’ spostato sulla sinistra, specialmente sul rigore di Higuain, stante il fatto che, con Mimmo seduto lì, Higuain non aveva mai sbagliato un rigore. 

Classici errori di concentrazione e di scarsa applicazione anche sugli schemi più semplici. 

Errori che mi pesano tanto e dei quali chiedo scusa, pur sapendo che si tratta di errori imperdonabili, a tutti i miei fratelli tifosi, consapevole che per mia colpa sono stati privati di una finale di Europa League e di un accesso alla Champions.

Per questo io non capisco lo spreco di energie e di parole, spesso senza senso, quando si parla di calcio. 

Insigne trequartista o sulla fascia? Valdifiori o Jorginho in cabina di regia? Albiol è da recuperare o da mandar via? E De Guzman? E Zuniga?

A che serve discutere di tutto ciò, quando basta lo sbattere delle ali di una farfalla a Portici per produrre una sconfitta a Fuorigrotta?

Io, finita l’ubriacatura modernizzatrice beniteziana, mi sono ravveduto e sono tornato nei ranghi.

Dopo una sauna (per sudare, s’intende) la febbre è calata in maniera decisiva ed ho riassaporato il piacere di lasciarmi andare a quelle benefiche massime, frutto della nostra atavica cultura e della saggezza popolare. Non potete immaginare la gioia che ho ritrovato in me stesso dopo aver pronunciato quelle frasi che avevo quasi dimenticato: “Beh, in fondo la palla è rotonda” oppure “Se fosse entrato quel pallone che è uscito di poco…”. 

Ma il vero problema è un altro.

Il vero problema che abbiamo, sta nel fatto che nessuno mai ha speso due parole o due righe di un giornale, e parlo di giornalismo sportivo, sulle possibilità, inesplorate al novanta per cento, che potrebbe offrire uno studio accurato e scientifico del fenomeno apotropaico. 

Mi rendo conto che “apotropaico e scientifico” può sembrare un ossimoro.

Ma l’ossimoro è stato ormai sdoganato ed è entrato, a pieno titolo, nella nostra vita di ogni giorno: “Renzi e sinistra”, “Ministero dei beni culturali e cultura”, “stadio e civiltà”, “TV e informazione” e via elencando.

Allora buttiamoci, per tornare a noi, su “apotropaico e scientifico” e cerchiamo di dare una cornice sistemica ad un fenomeno finora usato in maniera empirica, ma che invece appare pieno di promesse.

A questo fine occorrerebbe una partecipazione dal basso di tutti coloro che hanno fatto, e fanno, uso di queste pratiche, per confrontare esperienze e risultati, per catalogare e classificare metodologie ed applicazioni anche in relazione ai successi o insuccessi riportati e, sopratutto, per coordinare le nostre iniziative domenicali al fine di evitare incoerenze che potrebbero compromettere il buon risultato (ad esempio: se questa domenica i divani devono essere rivolti a Nord, evitiamo che qualcuno, disinformato, li orienti a Sud).

Un grande aiuto, in questa ottica potrebbe venire dai media, in particolare dal giornalismo sportivo, (televisivo, cartaceo ed on-line) che dovrebbe, attraverso rubriche specializzate, orientare nel verso giusto le singole iniziative.

In tal modo, oltretutto, sarebbe gratificato anche il giornalista il quale, esercitandosi su questi temi, potrebbe dare libero sfogo alla propria creatività, invece che restare, imbalsamato prigioniero, nel ristretto ambito del “via l’allenatore” dopo una sconfitta e del “viva l’allenatore” dopo una vittoria. 

Si potrebbero organizzare tavole rotonde con la partecipazione di esperti del settore: “L’inefficacia del corno di corallo nelle gare di Champions”, “Spargere il sale sul campo di gioco: una pratica che andrebbe recuperata”, “La parmigiana di melanzane prima della partita: vantaggi e controindicazioni”, “Tra calcio e religione: testimonianze di tre pastorelli i quali hanno ottenuto un rigore in favore della loro squadra invocando un santo sardo”.

Mi fermo qui, ma vedete le sconfinate possibilità che ci si potrebbero offrire in una visione più aperta e meno dogmatica del fenomeno calcio.

Apotropaici di tutto il mondo – pardon: di tutta Napoli – uniamoci.   

Credo sia l’unico antidoto possibile all’alternanza nevrotica tra esaltazione e depressione che ci attanaglia a settimane o mesi alterni.
Nino Russo                   

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