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Quel colloquio di lavoro con una startup: «Non possiamo permetterci un ridimensionamento»

Quel colloquio di lavoro con una startup: «Non possiamo permetterci un ridimensionamento»

La discussione che si è accesa di recente sulle sorti del Napoli futuro – la cesura tra la squadra vista durante l’ultimo biennio, percepita (come è stato scritto) come “borghese e narcisa”, squilibrata perché attenta alle istanze di campioni stranieri che giocano troppo in punta di fioretto, e quella che molti auspicano di vedere domani, a valle della rivoluzione sarrita dal basso, che badi alla concretezza e all’impegno di tutti dietro la scorza poco appariscente di nomi poco esotici – mi ha fatto venire in mente un episodio della mia vita professionale.

Mi accadde qualche tempo fa di sostenere una lunga giornata di colloqui con una startup informatica della quale mi intrigavano modi e tempi di ascesa nel mercato – si erano fatti strada con una idea innovativa, avevano trovato da poco l’aiuto finanziario di un grande investitore internazionale ed ora cercavano di pianificare il famigerato “salto di qualità” per aumentare la scala del proprio business. Mi presentavo con un passato trascorso quasi costantemente in diverse grandi realtà internazionali, generalmente di solida tradizione, e nonostante un passato di dozzine di colloqui (delle tipologie più disparate, la maggior parte dei quali con esiti negativi, come spesso accade a chi ne tenta molti) non avevo mai messo piede in una vera startup fatta di cinquanta tra ingegneri, personale amministrativo, risorse umane e operations. E fu subito una esperienza vulcanica.

La giornata di colloqui andò abbastanza bene, e mi parve che io e l’azienda potessimo piacerci a vicenda. Finché il VP della società non mi chiese un colloquio privato a quattr’occhi con lui e, dopo i normali convenevoli, mi fece sedere e, senza tergiversare troppo, mi domandò che tipo di strategia io adoperassi nella gestione del mio team di ingegneri. Specificatamente, come mi regolassi nel loro percorso di crescita e su chi focalizzassi il mio lavoro di people management – la ricerca degli stimoli personali, la definizione degli obiettivi, la distribuzione dei carichi di lavoro, e via discorrendo.

Mi parve una domanda facile. Come il calcio di rigore di Higuain nell’ultima contro la Lazio. Così risposi, onestamente, che nell’affrontare questo tipo di lavoro iniziavo sempre dagli ingegneri con performance più basse, da quelli più deboli. Concentrandomi sui casi più critici, e dando loro sempre l’impressione che il proprio manager avesse una via d’uscita praticabile per farli tornare a crescere dando loro gli strumenti per sentirsi di nuovo utili all’economia del gruppo di lavoro, ritenevo di riuscire ad avere sempre buon gioco nell’equilibrare il mio team. Ai più bravi, dissi, serve solo una visione, una prospettiva, ma proseguono da sé, sulle loro gambe. Il VP mi sorrise e mi rispose: “Io, invece, inizio sempre dai più forti”. Un colloquio ha sempre il suo fascino, ed è quello di una partita a scacchi: alla fine ricorderai alcune aperture strategiche, ma di sicuro conserverai sempre nella tua mente la mossa di scacco matto, dato o ricevuto. Quella risposta fu l’alfiere che bloccava definitivamente il re: avevo avuto la nettissima percezione di aver perso la mia possibilità in quel preciso istante.

La discussione andò avanti per un po’. Il VP mi spiegò che nelle dinamiche di una startup, di una azienda nuova, rampante, ambiziosa, che otteneva ora un grande finanziamento ma che non sapeva se sarebbe durata di lì a tre o cinque anni, partire dai più forti è fondamentale, e non farlo è un potenziale suicidio. Anzitutto perché fuori, nel mercato, le grandi corporation sfornano lauti stipendi cui una realtà minore non sa far fronte, e curare i migliori facendoli sentire indispensabili è l’arma che si ha per trattenerli finché si può – specie perché sono i professionisti migliori i primi a percepire che la situazione aziendale sta prendendo una brutta piega e ad abbandonare la nave se questa accenna ad andare alla deriva; poi perché i più bravi influenzano positivamente ambizioni e competenze dei meno bravi e dei più pigri, specie in un gruppo piccolo, per cui far spiccare il volo a uno può significare salvarne nel lungo periodo cento; infine perché in un team con risorse non illimitate, perdere un top performer significa perdere tre quarti della produttività da un momento all’altro e, mentre in una grande azienda sarebbe stato relativamente agevole convincere un ingegnere bravo di un altro team a spostarsi nel mio, in una realtà piccola e dinamica i tempi necessari a rimpiazzare un talento possono essere lunghi fino al punto da risultare letali.

Il colloquio, ovviamente, non ebbe esito positivo. Ma ancora oggi lo ricordo come una lezione gigantesca sulla non universale applicabilità di metodi e procedure a realtà gestionali diverse; e sulla meravigliosa complessità che c’è nella gestione di un gruppo di persone che lavorano assieme. Il VP mi disse qualcosa come: “We cannot afford to shrink“, che suona molto vicino a: “Non possiamo permetterci un ridimensionamento”. E – ironia delle ironie – era spagnolo.
Raniero Virgilio

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