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Messi e Maradona

Messi e Maradona

Lo sport appassiona perché è emozione pura, splendente, viva. Tra pubblico e atleti si crea empatia, senso di appartenenza, affetto. Sentimenti che trovano la loro ragion d’essere in quei gesti tecnici che esaltano lo spettatore, trasportandolo dalla vita quotidiana al sogno di un attimo, anelando lo spirito gioioso e fanciullesco più profondo di ognuno di noi. Succede, però, che lo sport sia anche – e naturalmente – disputa, tenzone, battaglia. E che alla fine anche il nobile gioco delle parti debba sottomettersi alla fredda logica dei numeri, dei dati e delle statistiche. Il risultato è il punto ultimo della competizione, la sorregge e giustifica sforzi e lavoro. La vittoria è tanto, molto, ma non è tutto.

Dopo la splendida partita di Leo Messi nella semifinale di Champions League contro il Bayern Monaco (con un gol eccezionale, pallonetto di destro a Neuer dopo aver ubriacato Boateng), si è tornati a parlare prepotentemente del paragone tra il campione argentino del Barcellona e Diego Armando Maradona. Al di là del fatto che potremmo essere spudoratamente di parte – perché iddio solo sa cosa Diego ha realizzato da queste parti, trascinando un intero popolo ad una rivalsa sociale e culturale – è riflettendo sulla storia dello sport in generale che si può constatare con serena obiettività quanto il paragone Messi-Maradona sia quantomeno inopportuno.

Messi ha un palmarès costellato di gagliardetti, coppe, numeri impressionanti e una sequenza di palloni d’oro elargiti ad uso e consumo delle masse. E’ un giocatore mostruoso, ma è figlio del calcio di questi tempi. E’ velocissimo, tecnico, anche geniale, ma si è accompagnato per tutta la carriera a giocatori di pari livello, gente che parla in campo la sua stessa lingua. Messi è l’inizio e la fine del concetto attuale di calcio globalizzato: la sua faccia pulita arriva ai quattro angoli del globo, gli sponsor fanno a gara ad ingaggiarlo, è l’idolo delle nuove generazioni. Lui, come Cristiano Ronaldo, è un campione in qualche modo “costruito”, cresciuto per diventare quello che è. Non vogliamo sminuire la classe del “dieci” del Barcellona, al massimo sottolineare come lo sport faccia innamorare la gente anche quando è senso di libertà, anarchia, spesso e volentieri improvvisazione. E’ il gesto folle che dura un attimo, che trascende i numeri e che sa commuovere.

Non è un caso che il mondo abbia spesso adottato atleti generosi ed istintivi, preferendoli a campioni freddi e distaccati. In Italia, a cavallo degli anni settanta e ottanta, scoppiò tra gli appassionati di automobilismo quella che ancora oggi è ricordata come la “febbre Villeneuve” ovvero l’amore incondizionato per Gilles Villeneuve, pilota unico nel panorama mondiale di allora. Villeneuve guidava l’auto come un ossesso, era capace di magie al volante, alternando prodezze ad incidenti, il rischio non era una variabile ma una costante, ogni giro di pista era uno schizzo di follia mista ad un coraggio che era poi temerarietà.

Sappiamo come è andata a finire, ma il dato interessante è che Villeneuve ha vinto soltanto sei gare in sei anni di carriera, eppure è considerato un dio del volante. Se ragionassimo con i numeri e i trofei, Gilles non varrebbe Barrichello. Perdonate la digressione, utile però a comprendere come i “numeri” siano un mero specchietto per le allodole, soprattutto quando si parla di gente come Maradona. Diego è stato il vero uomo dei due mondi, due mondi poveri e in attesa di riscatto, il Napoli e l’Argentina. Maradona ha preso in mano due realtà, si è sobbarcato responsabilità enormi che Messi non ha mai avuto (a meno di non considerare il centrocampista del Napoli scudettato Ciccio Romano forte quanto Xavi), e ha vinto (quasi) da solo contro tutti: politica e avversari. Si è inventato un colpo di mano perché era piccolino e non arrivava con la testa ad anticipare i lungagnoni inglesi in area di rigore, un po’ come quando Villeneuve fece un giro di pista su tre ruote per non ritirarsi. Non si allenava come Messi, non viveva come Messi, ha fatto della sua imperfezione la sua forza e ha lottato una carriera intera contro veri e propri demoni.

Schopenhauer, filosofo romantico dell’800, diceva: “Genio e follia hanno qualcosa in comune: entrambi vivono in un mondo diverso da quello che esiste per gli altri“. Questo pensiero sembra cucito su misura per Diego, voi vi sentireste di dedicarlo alla Pulce? Il feticismo per i numeri, ogni tanto, lasci il tempo che trova; lo sport e le emozioni andrebbero vissute anche e soprattutto col cuore, non solo con il cervello. Altrimenti sarebbe inutile dedicare tempo e sentimenti a squadre e competizioni, soffrendo come dannati. Basterebbe un click del giorno dopo su Wikipedia per sapere chi è il più forte.
Antonino Rendina

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